don Alberto Brignoli "Non ci manchi il Logos!"

II Domenica dopo Natale (04/01/2015)
Vangelo: Gv 1,1-18 
Tra i ricordi della mia gioventù studentesca c'è quello di un professore che, di fronte a noi alunni che facevamo affermazioni fuori luogo o senza senso, diceva: "Vi manca il logos!". Conoscendo i tanti significati del termine greco "logos",
subito pensavamo all'uso di ragione, per cui quando si veniva tacciati di "mancanza di logos", sapevamo bene che non stavamo utilizzando al meglio tutte le nostre facoltà intellettive. Nel corso degli anni, crescendo e approfondendo i nostri studi, soprattutto quelli biblici, il termine "logos" ci apparve in tutta la sua complessità e profondità: non solo "ragione", ma anche studio, calcolo, stima, relazione, motivo, senso, significato, argomento...e chi più ne ha, più ne metta.
Anche la Liturgia della Parola di oggi usa il termine Logos, in particolare nel Vangelo di Giovanni, e la Bibbia in italiano da sempre ne fa una traduzione che riprende quella latina: Verbum, il Verbo, nel suo significato più generale di Parola. Nel Prologo di Giovanni che abbiamo letto, il Logos viene citato quattro volte, ma tutto il brano è una proclamazione di ciò che il Logos è, e di ciò che ha fatto e fa nella storia: è fin dal principio presso Dio, tutto è stato creato per mezzo suo, è portatore di vita e di luce tra gli uomini, è venuto in mezzo agli uomini ma non è stato accolto, se non da alcuni ai quali ha fatto il dono di diventare figli di Dio. Forse, dopo queste affermazioni, non c'era neppure bisogno di esplicitarlo: ma sin dall'inizio, ci viene rivelato che il Logos, il Verbo, era Dio, e più avanti ci viene comunicato che il Logos, il Verbo, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Quindi, con l'avvento del Cristianesimo, il concetto di Logos non è più solo quello di "ragione" e di tutti i suoi annessi e connessi, e nemmeno solo quello di "Verbo", di "Parola": il Logos è Dio, e per di più è un Dio che si fa uomo e viene a vivere tra gli uomini.
Certo, a forza di ascoltare questo brano o comunque il suo versetto più famoso (il v. 14 appunto), questa affermazione e questo concetto ci è divenuto familiare e quasi scontato. Ciò non sottrae nulla, comunque, alla complessità e alla profondità - a volte quasi cervellotica - dell'evangelista Giovanni, che rispetto ai Vangeli Sinottici inizia la sua opera con tutt'altro che una narrazione di fatti della vita di Gesù o della sua famiglia, come abbiamo ascoltato in questo tempo di Natale. Eppure il Vangelo di Giovanni, così diverso dagli altri, non spunta "per caso" nel panorama biblico, come un fungo in mezzo a un nevaio perenne. Giovanni è uno degli anelli (forse quello finale) di una catena che nell'orizzonte biblico parte da lontano, qualche secolo prima di Cristo, quando, successivamente al ritorno dall'esilio di Babilonia, il popolo ebraico sperimenta solo un breve periodo di pace e di sovranità, perché rimane un'altra volta schiavo di una nuova dominazione, quella greca. Nell'Antico Testamento vengono narrati storicamente solo i momenti drammatici di questa dominazione: pensiamo ai libri dei Maccabei, che ci raccontano di un disperato tentativo di resistere alla tentazione del mondo moderno per rimanere fedeli alle tradizioni e agli insegnamenti dei padri, e soprattutto alla Legge di Mosè, tanto vituperata e bistratta da tutti i popoli vicini.
Eppure, l'Antico Testamento dalla dominazione greca non percepisce solamente elementi negativi o modernisti: tra i saggi d'Israele c'è chi si lascia affascinare dalla Sapienza greca, da quella che conosciamo anche come filosofia, ossia quell'uso di ragione che aiuta l'uomo non solo a sviluppare le proprie potenzialità e quindi a sentirsi più autonomo nel contesto dell'universo, ma anche a scoprire la profondità dei misteri dell'esistenza, il più importante dei quali per il pio ebreo è senz'altro il mistero di Dio e dell'uomo in relazione con lui. Questo ci aiuta anche a capire il brano di Siracide che abbiamo ascoltato nella prima lettura, nel quale si fa un elogio della Sapienza (potremmo anche dire del Logos), che viene esaltata da Dio al punto da divenire quasi una persona che entra in dialogo con lui: "Allora il creatore dell'Universo mi diede un ordine, e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe". Sembra davvero di sentire risuonare, con tre secoli di anticipo, le parole di Giovanni: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi".
Come dicevo prima, queste parole a noi sembrano ormai assodate e quasi scontate: ma per il popolo di Israele non lo erano affatto, e credo che neppure per noi lo siano. A un popolo che, di ritorno dall'esilio, era preoccupato solamente di restaurare le tradizioni giudaiche distrutte dai conquistatori (in primis, il tempio) e di guardarsi dal creare indebite commistioni tra la purezza della propria fede originaria e le nuove espressioni di pensiero provenienti da altre culture, i saggi che stanno alla base della maggior parte dei libri sapienziali dell'Antico Testamento (Sapienza, Siracide, Qoèlet, Giona) spingono il popolo di Dio a vedere nella Sapienza, nella ragione, nel Logos, nella riflessione, nell'uso aperto delle facoltà mentali, il segno di una presenza di Dio in mezzo agli uomini, e non una sottrazione o un furto d'immagine alla sua grandezza e alla sua trascendenza. In Giovanni, questo trova la sua massima espressione quando afferma, appunto, che il Logos si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi.
E quindi, cosa dice a noi questa Sapienza che si personifica, che entra in relazione con Dio, che parla con lui, che si assimila talmente a lui da arrivare a rivelarci che egli stesso è la Sapienza, è il Logos? Ci dice lo stesso che diceva al popolo ebraico che entrava in contatto con l'ennesima cultura diversa dalla sua: ci dice di non temere il Logos, la Ragione, la Sapienza, la Parola creatrice, perché essa non ci porta via nulla di Dio, ma ci porta ancor di più a lui. Ci dice che la fede non è arroccarsi su posizioni intransigenti e talmente fedeli alla tradizione da divenire intolleranti e integraliste, come avviene spesso per altre religioni; ci dice che la fede non ha paura di entrare in dialogo con altre culture e con altre visioni del mondo; ci dice che la fede non può esimersi dall'uso della ragione, e che come cristiani non possiamo sopprimere la ragione per far posto alla fede, perché senza la ragione, senza la sapienza, senza lo studio, senza l'approfondimento, senza il pensiero, senza la conoscenza, senza il Logos, in definitiva, Dio non viene ad abitare in mezzo a noi.
Non abbiamo paura della ragione, del pensiero, e della ricerca approfondita delle cose di Dio. Non perderemo la Verità rivelata: troveremo, piuttosto, la possibilità di continuare a cercarla all'infinito, e di lasciarci, un giorno, incontrare da lei. Perché "Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che ce lo ha rivelato".

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