don Giorgio Scatto "Dio non vuole i sacrifici, ma il dialogo fra amanti"
Letture: Gen 22,1-18 Rm 8,31b-34 Mc 9,2-10 MONASTERO MARANGO CAORLE (VE)
1)Il testo della Genesi di questa domenica è una delle pagine più commentate - e anche più contestate – di tutta la Scrittura. Forse occorre anche aggiungere che è una tra le pagine meno comprese nel loro vero significato. Sì, perché Dio non ama i sacrifici. Non vuole che gli offriamo quello che già gli appartiene. Anche i figli. Sta crescendo, pure negli ambienti di tradizione cristiana, una religiosità deviata che vive di ‘offerte e sacrifici’; c’è una moltitudine immensa di persone che
pensano di tenersi buona la divinità buttando nelle fauci ingorde e sempre spalancate dell’idolo quanto di meglio la vita e la provvidenza hanno donato all’uomo. E’ la logica del gioco d’azzardo: spendo tutto, con la speranza di avere di più. E’ la pura follia di una società depauperata della sua intelligenza. Nella sfera religiosa è la follia di chi crede che Dio sia un semplice notaio delle nostre spettacolari esibizioni, o l’esattore severo, disposto a chiedere sempre di più per pareggiare i conti, che non sono mai a nostro favore. Quando questa visione deviata della fede afferra il credente, è la fine: l’orizzonte si restringe sempre di più e l’uomo viene divorato dai suoi stessi pensieri.
Il popolo uscito dall’Egitto si è ben presto trovato a vivere, nella terra di Canaan, in mezzo a situazioni fortemente impregnate di questa religiosità: bisognava dare molto alle divinità, anche sacrificare i propri figli, al fine di ottenere prosperità, benessere, denaro, potenza. Oggi non siamo lontani da questa mentalità, quando siamo disposti a perdere anche i beni più cari, l’amicizia, l’amore fedele, la verità unita alla misericordia, la pace frutto della giustizia, il dono inestimabile della creazione, violentata e saccheggiata, pur di ottenere voracemente e in fretta ciò che illusoriamente ci sembra più grande.
L’offrire sull’altare della propria volontà di potenza il proprio figlio significa separarsi definitivamente da ogni promessa di futuro. Significa distruggere anche il presente. E’ questo che vuole da noi il Signore?
Il popolo d’Israele ha capito un poco alla volta cosa voleva da lui il Signore che l’aveva tratto in salvo dalla dura schiavitù d’Egitto: non il sacrificio di capri e di agnelli né, tanto meno, l’offerta sacrificale di un figlio. Dio chiede di più! Vuole il coinvolgimento pieno della tua vita con la sua. Egli pronuncia con amore il tuo nome: <<Abramo!>>. E tu rispondi, come il primo patriarca: <<Eccomi!>>. Ti chiede di essere dove è lui, di avere i suoi stessi sentimenti di pietà, di amore, di misericordia. Ti chiede l’umile, gioioso e quotidiano ascolto di lui che ti parla, proprio come l’innamorata che non si stanca mai di ascoltare la voce dell’amato. Il sacrificio di cose ti rende orgoglioso e provoca in te il desiderio di essere ripagato. L’apertura del cuore, la rinuncia totale al tuo io egoistico e calcolatore, ti porta lungo l’esigente sentiero del dono e dell’amore senza limiti. Sì, tutta la nostra vita di fede è giocata su un dialogo tra due amanti, piuttosto che su imbarazzanti baratti di cose o persone, da mettere sul mercato del dare e dell’avere.
Il tema si fa ancora più chiaro - ed esigente – nel racconto evangelico.
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Ogni volta che, nei racconti evangelici, entrano in scena questi tre apostoli, è per avvertirci che ci troviamo innanzi a episodi che preannunziano la risurrezione. Gesù “prende per mano” la nostra miseria, la nostra poca fede, la nostra religiosità malata, ci guarisce e ci innalza fino a sé: di questo sono testimoni gli apostoli e i discepoli di Gesù. Anche se le premesse non sembrano affatto incoraggianti: si parla, sì, di resurrezione, ma dopo un faticoso passaggio attraverso il rifiuto, la sofferenza, la morte. Non si capisce più niente. Perché ascoltare un rabbi che parla di rinuncia a se stessi, di una croce da portare dietro alla sua, di una sequela esigente? Tutti noi desideriamo salvare la nostra vita, non perderla. Allora Gesù ci porta in disparte, nella solitudine, lontano dall’incalzare degli avvenimenti e dal turbinio delle parole. E ci dice: <<Guarda bene!>>.
Sul monte Gesù non diventa improvvisamente bianchissimo, splendente. Sono gli occhi dei discepoli che vedono diversamente, illuminati dalla luce penetrante dello Spirito. E’ la stessa cosa successa ad Abramo: il Signore non gli chiede il sacrificio, ma la sequela, l’obbedienza della fede, resa possibile solo da un cuore innamorato. Un cuore amante vede ciò che gli altri non possono vedere. Gli occhi convertiti dei tre discepoli vedono ora brillare in Gesù la luce stessa di Dio, portatrice di una vita che niente e nessuno può più distruggere. L’amore è davvero più forte della morte.
Non possiamo attardarci a lungo su questo brano. Ci basta sapere che per un attimo i tre amici di Gesù hanno visto la luce. Ma questo attimo è stato sufficiente per dare vigore al cammino che si apriva davanti a loro. Così anche noi, all’inizio della nostra quaresima, riceviamo la luce che anticipa la Pasqua. Non camminiamo nel buio, come chi non sa dove andare, perché il Risorto cammina già con noi, dando forza ai nostri piedi stanchi, portandoci, passo dopo passo, fin sotto la croce, fin dentro l’oscurità del sepolcro. Là egli non ci abbandona in balia della morte, ma ci innalza, con la potenza del suo braccio, fino alla luce inaccessibile di Dio che già abbiamo visto brillare sul suo volto. Anche se solo per un attimo.
Sul monte il linguaggio dei discepoli è ancora impacciato e incerto: <<Restiamo qui. Abbiamo capito. Non occorre andare fino a Gerusalemme>>. Sono le parole della tentazione, che accarezzano sempre il cuore dei discepoli: pietre d’inciampo, devianti estasi religiose per non vivere la sequela fino alle sue più radicali esigenze. Illusione di una salvezza che non passa attraverso la croce. Speranza di un paradiso privato del dono di sé, e dunque vuoto di amore. Ma ancora una volta i discepoli sono raggiunti dal mistero di un Dio che li avvolge completamente, strappandoli dai loro superficiali pensieri: Dio è come una nube oscura, ma dalla quale possiamo intendere una voce, quella delle Scritture, da Mosè ad Elia, passando per tutta la Parola della Legge e dei Profeti . Questa Parola antica e sempre risuonante nel cuore dei fedeli, ha in Gesù la sua piena espressione e il suo compimento: <<Questi è il Figlio, l’unigenito che amo. Egli è dato per voi, perché anche voi viviate. Accoglietelo, abbracciando la sua fragile umanità. Essa custodisce e porta tutta la mia Parola>>.
Signore, nell’oscurità dei nostri giorni, insegnaci a camminare alla luce di questa parola che si è fatta carne; insegnaci a diventare miti discepoli del Pastore che si è fatto per noi Agnello immolato.
Giorgio Scatto
1)Il testo della Genesi di questa domenica è una delle pagine più commentate - e anche più contestate – di tutta la Scrittura. Forse occorre anche aggiungere che è una tra le pagine meno comprese nel loro vero significato. Sì, perché Dio non ama i sacrifici. Non vuole che gli offriamo quello che già gli appartiene. Anche i figli. Sta crescendo, pure negli ambienti di tradizione cristiana, una religiosità deviata che vive di ‘offerte e sacrifici’; c’è una moltitudine immensa di persone che
pensano di tenersi buona la divinità buttando nelle fauci ingorde e sempre spalancate dell’idolo quanto di meglio la vita e la provvidenza hanno donato all’uomo. E’ la logica del gioco d’azzardo: spendo tutto, con la speranza di avere di più. E’ la pura follia di una società depauperata della sua intelligenza. Nella sfera religiosa è la follia di chi crede che Dio sia un semplice notaio delle nostre spettacolari esibizioni, o l’esattore severo, disposto a chiedere sempre di più per pareggiare i conti, che non sono mai a nostro favore. Quando questa visione deviata della fede afferra il credente, è la fine: l’orizzonte si restringe sempre di più e l’uomo viene divorato dai suoi stessi pensieri.
Il popolo uscito dall’Egitto si è ben presto trovato a vivere, nella terra di Canaan, in mezzo a situazioni fortemente impregnate di questa religiosità: bisognava dare molto alle divinità, anche sacrificare i propri figli, al fine di ottenere prosperità, benessere, denaro, potenza. Oggi non siamo lontani da questa mentalità, quando siamo disposti a perdere anche i beni più cari, l’amicizia, l’amore fedele, la verità unita alla misericordia, la pace frutto della giustizia, il dono inestimabile della creazione, violentata e saccheggiata, pur di ottenere voracemente e in fretta ciò che illusoriamente ci sembra più grande.
L’offrire sull’altare della propria volontà di potenza il proprio figlio significa separarsi definitivamente da ogni promessa di futuro. Significa distruggere anche il presente. E’ questo che vuole da noi il Signore?
Il popolo d’Israele ha capito un poco alla volta cosa voleva da lui il Signore che l’aveva tratto in salvo dalla dura schiavitù d’Egitto: non il sacrificio di capri e di agnelli né, tanto meno, l’offerta sacrificale di un figlio. Dio chiede di più! Vuole il coinvolgimento pieno della tua vita con la sua. Egli pronuncia con amore il tuo nome: <<Abramo!>>. E tu rispondi, come il primo patriarca: <<Eccomi!>>. Ti chiede di essere dove è lui, di avere i suoi stessi sentimenti di pietà, di amore, di misericordia. Ti chiede l’umile, gioioso e quotidiano ascolto di lui che ti parla, proprio come l’innamorata che non si stanca mai di ascoltare la voce dell’amato. Il sacrificio di cose ti rende orgoglioso e provoca in te il desiderio di essere ripagato. L’apertura del cuore, la rinuncia totale al tuo io egoistico e calcolatore, ti porta lungo l’esigente sentiero del dono e dell’amore senza limiti. Sì, tutta la nostra vita di fede è giocata su un dialogo tra due amanti, piuttosto che su imbarazzanti baratti di cose o persone, da mettere sul mercato del dare e dell’avere.
Il tema si fa ancora più chiaro - ed esigente – nel racconto evangelico.
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Ogni volta che, nei racconti evangelici, entrano in scena questi tre apostoli, è per avvertirci che ci troviamo innanzi a episodi che preannunziano la risurrezione. Gesù “prende per mano” la nostra miseria, la nostra poca fede, la nostra religiosità malata, ci guarisce e ci innalza fino a sé: di questo sono testimoni gli apostoli e i discepoli di Gesù. Anche se le premesse non sembrano affatto incoraggianti: si parla, sì, di resurrezione, ma dopo un faticoso passaggio attraverso il rifiuto, la sofferenza, la morte. Non si capisce più niente. Perché ascoltare un rabbi che parla di rinuncia a se stessi, di una croce da portare dietro alla sua, di una sequela esigente? Tutti noi desideriamo salvare la nostra vita, non perderla. Allora Gesù ci porta in disparte, nella solitudine, lontano dall’incalzare degli avvenimenti e dal turbinio delle parole. E ci dice: <<Guarda bene!>>.
Sul monte Gesù non diventa improvvisamente bianchissimo, splendente. Sono gli occhi dei discepoli che vedono diversamente, illuminati dalla luce penetrante dello Spirito. E’ la stessa cosa successa ad Abramo: il Signore non gli chiede il sacrificio, ma la sequela, l’obbedienza della fede, resa possibile solo da un cuore innamorato. Un cuore amante vede ciò che gli altri non possono vedere. Gli occhi convertiti dei tre discepoli vedono ora brillare in Gesù la luce stessa di Dio, portatrice di una vita che niente e nessuno può più distruggere. L’amore è davvero più forte della morte.
Non possiamo attardarci a lungo su questo brano. Ci basta sapere che per un attimo i tre amici di Gesù hanno visto la luce. Ma questo attimo è stato sufficiente per dare vigore al cammino che si apriva davanti a loro. Così anche noi, all’inizio della nostra quaresima, riceviamo la luce che anticipa la Pasqua. Non camminiamo nel buio, come chi non sa dove andare, perché il Risorto cammina già con noi, dando forza ai nostri piedi stanchi, portandoci, passo dopo passo, fin sotto la croce, fin dentro l’oscurità del sepolcro. Là egli non ci abbandona in balia della morte, ma ci innalza, con la potenza del suo braccio, fino alla luce inaccessibile di Dio che già abbiamo visto brillare sul suo volto. Anche se solo per un attimo.
Sul monte il linguaggio dei discepoli è ancora impacciato e incerto: <<Restiamo qui. Abbiamo capito. Non occorre andare fino a Gerusalemme>>. Sono le parole della tentazione, che accarezzano sempre il cuore dei discepoli: pietre d’inciampo, devianti estasi religiose per non vivere la sequela fino alle sue più radicali esigenze. Illusione di una salvezza che non passa attraverso la croce. Speranza di un paradiso privato del dono di sé, e dunque vuoto di amore. Ma ancora una volta i discepoli sono raggiunti dal mistero di un Dio che li avvolge completamente, strappandoli dai loro superficiali pensieri: Dio è come una nube oscura, ma dalla quale possiamo intendere una voce, quella delle Scritture, da Mosè ad Elia, passando per tutta la Parola della Legge e dei Profeti . Questa Parola antica e sempre risuonante nel cuore dei fedeli, ha in Gesù la sua piena espressione e il suo compimento: <<Questi è il Figlio, l’unigenito che amo. Egli è dato per voi, perché anche voi viviate. Accoglietelo, abbracciando la sua fragile umanità. Essa custodisce e porta tutta la mia Parola>>.
Signore, nell’oscurità dei nostri giorni, insegnaci a camminare alla luce di questa parola che si è fatta carne; insegnaci a diventare miti discepoli del Pastore che si è fatto per noi Agnello immolato.
Giorgio Scatto
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