Mons. Francesco Follo Lectio Divina "La lebbra e il perdono"

PARIGI, 14 Febbraio 2015 (Zenit.org) -,VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 15 febbraio 2015.
1) La vita è un miracolo e il Vangelo non è una fiaba.
Il brano del Vangelo di oggi narra l’incontro tra Gesù e il lebbroso. Il Messia lascia Cafarnao, dove aveva cominciato le prime guarigioni, e va nei villaggi vicini, dove doveva portare il Vangelo. Nel deserto, che avvolgeva questi piccoli paesi di Galilea, certamente non c’era la sabbia, come nel Sahara, più che altro c’era una natura così aspra che nessuno voleva
viverci. Era zona di passaggio, una terra di nessuno. Ma questo non voleva dire che non ci fosse nessuno, perché l’uomo a volte abita proprio là, per scelta o colpa propria o perché qualcuno ce l’ha mandato. E’ il caso del lebbroso. Chi era colpito dalla lebbra, “la primogenita della morte” (Gb 18,13), doveva tenersi separato e non poteva avvicinarsi a nessuno, perché la legge dell’Antico Testamento prescriveva: “Il lebbroso starà solo, lontano, fuori dell’accampamento” (Lv 13,46)2.Il lebbroso era abbandonato a se stesso, destinato ad una lenta morte, infamato quanto era ritenuto un peccatore, che meritava quella condanna di avere una malattia ributtante, inguaribile e infettiva.

Gesù, il Medico che è venuto a guarire tutti i malati, tocca il lebbroso e lo guarisce. Le nostre leggi possono solo riconoscere il male e condannarlo. Gesù lo guarisce.L’immondo, il castigato, l’intoccabile diventa fonte di stupore e di Vangelo. Ma perché Cristo tocca questo malato ripugnante? Perché, dato che guarisce il malato con la sua volontà e con la sua parola, Gesù aggiunge anche il tocco della sua mano? “Io ritengo che per nessun altro motivo lo faccia, se non per mostrare che non c'è niente di impuro per un uomo puro.”
(San Giovanni Crisostomo).  Una della più profonde spiegazioni di questo miracolo è l’esempio del Poverello di Assisi. San Francesco d'Assisi, che amò Cristo fino ad assomigliargli fisicamente con le stimmate, i lebbrosi li ha baciati.

Certo, non da subito.

Racconta Tommaso da Celano: “All'inizio, la sola vista dei lebbrosi gli era così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Solo nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell'Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria”. Visse così non perché costretto da un timore, ma perché spinto dall’amore: era innamorato di Dio. Infatti lo fece con il cuore: “Poco tempo dopo volle ripetere quel gesto: andò al lebbrosario e, dopo aver dato a ciascun malato del denaro, ne baciò la mano e la bocca”.

Nel suo testamento, San Francesco stesso scrisse: “Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo” (Fonti Francescane, 110). Nei lebbrosi, che Francesco incontrò quando era ancora “nei peccati – come egli dice -, era presente Gesù. E quando Francesco si avvicinò a uno di loro e, vincendo il proprio ribrezzo, lo abbracciò, Gesù lo guarì dalla sua lebbra, cioè dal suo orgoglio, e lo convertì all’amore di Dio. Ecco la vittoria di Cristo, che è la nostra guarigione profonda e la nostra risurrezione a vita nuova.

San Francesco d’Assisi mostrò e mostra ancora che il Vangelo non è il racconto di una fiaba per suscitare buoni sentimenti ed insegnare una morale, ma la narrazione di una Presenza che fa miracoli. Il miracolo, per Gesù, è la confluenza di due volontà buone; il contatto vivo tra la volontà di bontà di chi agisce e la fede di chi è agito. La collaborazione di due forze. Un combaciamento, una convergenza di due certezze: una che domanda “Se vuoi, puoi guarirmi” e l’altra che purificando guarisce non solo il corpo ma anche il cuore malato.

2) Gesù ci purifica dalla nostra “lebbra”.

Non ha nome né volto il lebbroso del Vangelo, perché così ognuno di noi può identificarsi in lui. La sua voce esprime il nostro desiderio di salute fisica e spirituale. In modo discreto supplica: “Se vuoi, guariscimi”.

Il lebbroso esprime questa supplica perché, più o meno consapevolmente, si chiede: “Che cosa vuole Dio per me? Cosa vuole da questa carne sfatta, da questo corpo piagato, da questi anni di dolore (per chi soffre il tempo della malattia è sempre lungo). Gli scribi di ogni epoca ripetono che il dolore è punizione per i peccati o maestro di vita o incomprensibile volontà di Dio. La domanda del lebbroso è “teologica”, perché a partire dalla sua esperienza di sofferenza quest’uomo si rivolge al Figlio di Dio-Amore. La fede del lebbroso non è teorica o astratta: nasce da un cuore che palpita e che ha capito che Dio è il Dio della compassione. Il dolore fa emergere l’amore da cui si è nati.

Facciamo nostro questo appello del lebbroso: “Se vuoi, puoi mondarmi”. Non la nostra purezza legale, ma la nostra miseria ci dà il diritto di rivolgerci al Signore, invocandoLo e mettendoci in ginocchio, perché riconosciamo la sua divinità ed il suo amore. Noi siamo bisogno di Dio e del suo amore. L’importante è riconoscere il nostro male e voler guarire.

E Gesù, commosso3, ci tocca. Per Gesù il lebbroso (ciascuno di noi) non è un caso da risolvere, ma è una lama nella carne. Per Lui il malato di lebbra non è un una domanda teorica a cui rispondere, ma un fratello per il quale le sue viscere fremono, come quelle di una madre per il figlio. Dio ha verso di noi questa commozione materna, genera gesti, che fa quasi violenza alla mano, la fa stendere, la fa toccare. Gesù tocca il lebbroso, sapendo che per la legge mosaica toccare un lebbroso è diventare impuro . Per lui l’uomo vale più di questa a legge. Con una carezza, che purifica, il Redentore porta a pienezza la legge antica mediante la nuova legge dell’amore e della libertà.

Eternamente Dio vuole figli guariti. A ciascuno di noi, come al lebbroso, a Lazzaro, alla figlia di Giairo, alla suocera di Simone ripete: lo voglio, alzati, guarisci.

Dio è salute e salvezza, è guarigione dal male di vivere. Non ne conosciamo i tempi e i modi, ma sappiamo dalla fede che Lui rinnoverà il cuore, battito su battito. Con la compassione, con una carezza della sua mano, con la forza tenera della sua voce ci toglie sempre e per sempre dall’abisso del dolore.

Un esempio attuale di questa compassione sono le Vergini Consacrate nel mondo. In forza di questa consacrazione esse sono chiamate ad essere testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Se da una parte queste donne sono chiamate ad essere, mediante il dono totale di sé stesse nella verginità a servire Dio nella preghiera, in particolare quella liturgica, dall’altra esse sono chiamate al servizio della carità nei confronti del prossimo, che consiste appunto nel fatto che, in Dio e con Dio, amano anche la persona che non è gradita, che la malattia rende ripugnante. “Totalmente consacrate a Dio, sono totalmente consegnate ai fratelli, per portare la luce di Cristo là dove più fitte sono le tenebre e per diffondere la sua speranza nei cuori sfiduciati. Le persone consacrate sono segno di Dio nei diversi ambienti di vita, sono lievito per la crescita di una società più giusta e fraterna, sono profezia di condivisione con i piccoli e i poveri. Così intesa e vissuta, la vita consacrata ci appare proprio come essa è realmente: è un dono di Dio, un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo Popolo” (Papa Francesco).

*

NOTE

1 “Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: ‘Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro’. Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.” (Mc 1,40-45).

2 La prima e la terza lettura di oggi ci pongono dinanzi a quello che è stato per secoli un vero e proprio incubo, un terribile spettro che suscita repulsione e orrore: la lebbra.Il primo testo è tratto dal libro del Levitico, in particolare da quella sezione (capp.13-14) che tratta minuziosamente della lebbra: il cap.13 ne descrive la tipologia includendo in maniera piuttosto larga forme diverse (72 ne avrebbe elencato la Mishnah, raccolta di commenti tradizionali della Legge del Vecchio Testamento) di malattie della pelle, di cui molte guaribili; il cap. 14 presenta il rituale della purificazione dei lebbrosi e delle case infette.E' evidente il motivo igienico che ispira un comportamento comunitario attento alle malattie infettive. I sacerdoti erano i competenti ad esaminare l'ammalato e a diagnosticarne il contagio dichiarandolo "immondo" (cap.13, a.3); lo stesso sacerdote avrebbe poi, eventualmente, certificato la guarigione (cap.14, vv.1-4). Nelle società antiche le norme precauzionali erano effettivamente l'unica difesa possibile verso malattie contagiose, soprattutto se inguaribili; di qui le dure norme esposte nei vv. 45-46:“Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: - Immondo! Immondo! - Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento”.

3 Il verbo greco, che è tradotto con “commosso” indica l’essere preso allo stomaco, dice di una mano che ti stringe le viscere: provò com­passione.

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FAMIGLIA E VITA
Non si parla di morte, si parla di vita (Seconda parte)

Secondo la dottoressa Franca Benini, specialista in terapia del dolore, le cure palliative pediatriche sono "un diritto" ed economicamente non gravano sul sistema sanitario

Di Maria Gabriella Filippi

ROMA, 14 Febbraio 2015 (Zenit.org) - [Leggi prima parte, con intervista a Marcello Orzalesi]

Le cure palliative, in particolare quando riguardano i bambini, non devono essere necessariamente associate a situazioni relative a pazienti “terminali” e rappresentano la vera alternativa all’eutanasia. ZENIT ne ha parlato con Franca Benini, responsabile del Centro Regione Veneto terapia del dolore e cure palliative pediatriche.

Quali sono le maggiori preoccupazioni che vengono associate al termine “cure palliative”?

Sulle cure palliative pediatriche c’è una reazione di esclusione: chi ha un malato, ha paura che “cura palliativa” significhi “mio figlio sta morendo”, dunque ne esclude la possibilità; chi invece è al di fuori, appena sente associare i termini “bambini” e “cure palliative”, finisce con l’evitare l’argomento. Mentre le cure palliative per l’adulto hanno già una loro storia, le cure palliative pediatriche devono ancora dimostrare che esistono.

Cosa permettono le cure palliative oggi per questi bambini?

Per prima cosa permettono di tornare a casa. Essere a casa per un bambino significa ricominciare a vivere; il bambino ricomincia a vivere e ad andare a scuola, a rivedere gli amici, a fare la spesa con i genitori… Accanto a questo le cure palliative danno l’assoluto controllo dei sintomi e il recupero delle funzioni che possono essere recuperate, ottimizzandone i risultati: permettono al bambino di essere più bambino possibile.

Perché è nata la carta dei Diritti del bambino morente? Potrebbe essere applicabile a qualsiasi situazione e contesto sociale internazionale?

Certamente sì, mancava qualcosa di pratico che partisse da motivazioni etiche, filosofiche ma soprattutto cliniche, e che fosse disponibile per tutti gli operatori che seguono i bambini negli ospedali, in pronto soccorso, a casa o in terapia intensiva: la messa insieme di più aspetti ha potuto portare a costruire una carta applicabile in tutte le realtà.

Non poche persone sostengono che non abbia senso investire tanto denaro per i malati terminali: perché? È davvero anti-economico?

Quando si parla di cure palliative non si parla solo di terminalità, si parla di inguaribilità: molti pazienti pediatrici nascono già inguaribili ma spesso vivono per molto tempo, anche anni. Noi ci occupiamo di questo tempo dell’inguaribilità. L’approccio alle cure palliative pediatriche è stato studiato anche in termini di efficacia di costo, e ormai sono molteplici i lavori che confermano questo: se si attua un sistema di cure palliative pediatriche a rete, con un centro unico che le gestisce, non solo i bambini vivono meglio e vivono di più, ma si risparmia. Come? Perché molti di questi bambini che sono a casa sarebbero altrimenti in ospedale in ambito critico. Certo, c’è una spesa di start up per creare il team e l’hospice, ma si è visto che a lungo andare questo viene recuperato in maniera importante; inoltre, sull’altro piatto della bilancia, vi è il livello di qualità dell’assistenza e soprattutto di qualità della vita in famiglia, radicalmente diversa: alcuni bambini in terapia intensiva, chiusi per anni, arrivavano anche a 150 giorni di ricovero annuo; mentre gli ultimi dati ci permettono di dire che, dei bambini presi in carico, calano bruscamente il numero e la durata dei ricoveri, e soprattutto i giorni di permanenza in ambito di terapia intensiva.

Perché sarebbe opportuno che i governi e il leader religiosi si impegnino a favore di queste cure?

In Italia abbiamo una legge ottimale, una delle leggi di riferimento a livello europeo ma anche al di fuori dell’Europa. Adesso dobbiamo partire dalla disponibilità di normativa che abbiamo, e portarla al concreto. Negli ultimi dieci anni il numero di questi bambini affetti da malattie inguaribili è esploso: in Italia ce ne sono più di 35mila e questi numeri rendono ragione della necessità di una risposta assistenziale.

In Olanda è stata avviata da tempo la pratica dell’eutanasia per i bambini. Quali dati risultano, su questo  modo di procedere, dal punto di vista scientifico pediatrico?

Chi fa cure palliative è assolutamente contrario all’eutanasia, perché “eutanasia” significa di fatto fallimento delle cure palliative: se io riesco a fare il mio lavoro contro il dolore, posso aiutare la famiglia e il bambino ad avere un giusto approccio all’inguaribilità. Non è facile, ma posso aiutare quella famiglia e quel bambino a rendere il tutto meno pesante. Sono quasi trent’anni che faccio questo lavoro ma nella mia esperienza nessuno mai mi ha chiesto di voler morire. La disperazione e l’ansia sono frequenti, ma i genitori non te lo chiedono e i bambini sono delle persone speciali: tu controlli loro il sintomo, li proponi all’interno di una vita sociale, e loro ripartono; è più un problema nostro, degli adulti. I bambini hanno una marcia in più.

Possiamo sperare che la sensibilizzazione alle cure palliative possa offrire un’alternativa più umana all’eutanasia?

Secondo me l’eutanasia non ha alternative, mentre le cure palliative sono un diritto: deve essere chiarito questo, qual è l’obiettivo della medicina? È sbagliato pensare che sia sempre quello di guarire, perché altrimenti non moriremmo mai. Se noi partiamo da questo concetto, che la medicina non ha le potenzialità per guarire sempre, la medicina è solo uno strumento per curare le persone. Le cure palliative fanno parte della medicina, e riescono a curare i bambini anche nel percorso dell’inguaribilità. Nell’hospice dove lavoriamo si vive, si mangia, si lavora tantissimo; la stessa cosa si fa in casa, ma certo non si parla di morte, si parla di vita. L’eutanasia non ha alternativa, è una scelta sbagliata di fare medicina.

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