Abbazia Santa Maria di Pulsano Letture patristiche della Domenica «dell’incontro con i greci» V di Quaresima B

Gv 12,20-33; Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9
1. Amore e croce
Il Signore ci esorta poi a seguire gli esempi che egli ci offre della sua passione: Chi ama la propria anima, la perderà (Gv 12,25).
Queste parole si possono intendere in due modi: «Chi ama, perderà», cioè: se ami, non esitare a perdere, se desideri avere la vita in
Cristo, non temere la morte per Cristo. E nel secondo modo: «Chi ama l`anima sua, la perderà», cioè: non amare in questa vita, se non vuoi perderti nella vita eterna. Questa seconda interpretazione ci sembra più conforme al senso del brano evangelico che leggiamo. Il seguito infatti dice: "E chi odia la propria anima in questo mondo, la serberà per la vita eterna" ("ibid."). Quindi, la frase di prima: «Chi ama», sottintende: in questo mondo; cosi come poi dice: «Chi invece odia in questo mondo», la conserverà per la vita eterna.
Grande e mirabile verità, nell`uomo c`è un amore per la sua anima che la perde, e un odio che la salva. Se hai amato smodatamente, hai odiato; se hai odiato gli eccessi, allora hai amato. Felici coloro che hanno odiato la loro anima salvandola, e non l`hanno perduta per averla amata troppo. Ma guardati bene dal farti venire l`idea di ucciderti da te stesso, avendo inteso che devi odiare in questo mondo la tua anima. Così intendono certi uomini perversi e male ispirati, crudeli e scellerati omicidi di sé stessi, che cercano la morte gettandosi nel fuoco, annegandosi in mare o precipitandosi da una vetta. Non è questo che insegna Cristo. Quando il diavolo gli suggerì di gettarsi nel precipizio, egli rispose: "Torna indietro, Satana; sta scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo" (Mt 4,7). E nello stesso senso disse a Pietro, per fargli intendere con quale morte egli avrebbe glorificato Dio: "Quando eri più giovane, ti cingevi da te stesso e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, un altro ti cingerà e di condurrà dove tu non vuoi" (Gv 21,18-19). Parole queste che chiaramente ci indicano che non da sé ma da altri, deve essere ucciso colui che segue Cristo. Quando dunque un uomo si trova nell`alternativa, e deve scegliere tra infrangere un comandamento divino, oppure abbandonare questa vita perchè il persecutore gli minaccia la morte, ebbene egli scelga la morte per amore di Dio, piuttosto che la vita offendendo Dio; così avrà giustamente odiato la sua anima in questo mondo per salvarla per la vita eterna.

(Agostino, Comment. in Ioan., 51, 10)


2. Cristo ci ha fatto dono della sua vittoria

Qual sacrificio fu mai più sacro di quello che il vero Pontefice posa sull`altare della croce immolando su di lei la propria carne? Benchè, invero, la morte di molti santi sia stata preziosa agli occhi del Signore (cf. Sal 115,15), mai tuttavia l`uccisione di un innocente ebbe come causa la propiziazione del mondo. I giusti hanno ricevuto la propria corona di gloria, non ne hanno donate, la forza d`animo dei fedeli ha prodotto esempi di pazienza, non doni di giustizia. La loro morte rimase propria a ciascuno di loro e nessuno con il proprio transito acquistò il debito di un altro; nostro Signore, invece, unico tra i figli degli uomini, è stato il solo in cui tutti sono stati crocifissi, tutti sono morti, tutti sono stati sepolti, tutti del pari sono risuscitati; ed è di loro che egli stesso diceva: "Quando sarò levato in alto attirerò tutto a me" (Gv 12,32). In effetti, la vera fede che giustifica gli empi (cf. Rm 4,5) e crea i giusti (cf. Ef 2,10; 4,24), attratta a colui che condivide la sua natura, acquista in lui la salvezza, in lui nel quale essa si è ritrovata innocente; e poiché "non vi è che un unico mediatore tra Dio e gli uomini, l`uomo Cristo Gesù (1Tm 2,5) è per la comunione con la sua stirpe che l`uomo ha ritrovato la pace con Dio; può così, in tutta libertà, gloriarsi (cf. 1Cor 3,21; Fil 3,3; 2Cor 10,17) della potenza di colui che, nella infermità della nostra carne, ha affrontato un nemico superbo e ha fatto dono della sua vittoria a coloro nel cui corpo egli ha trionfato.

(Leone Magno, Sermo, 51, 3)


3. Tutto attirerò a me

"E io, quando sarò levato in alto da terra, tutto attirerò a me" (Gv 12,32).
Cos`è questo «tutto», se non tutto ciò da cui il diavolo è stato cacciato fuori? Egli non ha detto: tutti, ma «tutto», perchè la fede non è di tutti (cf. 2Ts 3,2). Questa parola non si riferisce quindi alla totalità degli uomini, ma alla integrità della creatura: spirito, anima e corpo; cioè, quel che ci fa intendere, quel che ci fa vivere, quel che ci fa visibili e sensibili. In altre parole, colui che ha detto: "non un capello del vostro capo andrà perduto" (Lc 21,18), tutto attira a sé.
Se invece vogliamo interpretare «tutto» come riferito agli stessi uomini, allora si deve intendere che con quella parola si indicano tutti i predestinati alla salvezza. In questo senso il Signore dice che di tutti questi nessuno perirà, come prima aveva detto parlando delle sue pecore. Oppure egli ha voluto intendere tutte le specie di uomini, di tutte le lingue, di tutte le età, senza distinzione di grado o di onori, di ingegno o di talento, di professione o di arte, al di là di qualsiasi altra distinzione che, al di fuori del peccato, possa esser fatta tra gli uomini, dai più illustri ai più umili, dal re sino al mendico: «Tutto» - egli dice - «attirerò a me», in quanto io sono il loro capo ed essi le mie membra.

(Agostino, Comment. in Ioann., 52, 11)


4. La morte del Signore è la nostra somma gloria

Per conseguenza, ebbe con noi con una vicendevole partecipazione una meravigliosa relazione; era nostro, quello per cui è morto, suo sarà quello, per cui possiamo vivere. In effetti, egli diede la vita, che assunse da noi e per la quale morì, e dette la stessa vita, poiché egli era il Creatore; ma prese quella vita per la quale con Lui e per Lui saremo vittoriosi, non per opera nostra. E per questo, per quanto riguarda la vita nostra, per la quale siamo uomini, morì non per sé ma per noi; infatti, la natura di Lui, per la quale è Dio, non può morire completamente. Ma per quanto riguarda la natura umana di lui, che egli, come Dio, creò, è morto anche in essa: poiché anche la carne egli creò nella quale egli è morto.
Non soltanto, quindi, non dobbiamo arrossire della morte del Signore, nostro Dio, ma ci dobbiamo grandemente confidare in essa e aver motivo di somma gloria: accettando infatti, la morte da noi, che egli trovò in noi, sposò nel modo più fedele la vita che ci avrebbe dato, che noi non possiamo avere da noi. In effetti, colui che ci amò tanto, che ciò che meritammo col peccato, egli, senza peccato, patì per noi peccatori, come colui che giustifica non ci darà ciò con giustizia? Come non ci restituirà, i premi dei santi, colui che promette con verità, colui che, innocente, sopportò la pena dei colpevoli?
Confessiamo, dunque, fratelli, coraggiosamente, ed anche professiamo: Cristo è stato crocifisso per noi: non vi spaventate ma siate nella gioia; proclamiamolo non con vergogna ma con gioia. Osservò così il Cristo l`apostolo Paolo e raccomandò tale titolo di gloria.
Ed egli, avendo molti titoli, grandi e divini, che egli ricordasse del Cristo, non disse di gloriarsi delle meraviglie del Cristo, poiché, essendo anche uomo, come siamo noi, ebbe il dominio nel mondo; ma disse: Per me di non altro voglio gloriarmi, che della croce del Nostro Signore Gesù Cristo (Gal 6,14).

(Agostino, Sermo Guelf., 3, 1-2)


5. Cristo è sorto in mezzo a noi come una spiga di frumento: è morto e produce molto frutto

Cristo fu la primizia di questo frumento, egli che da solo sfuggì alla maledizione, proprio quando per noi volle farsi maledizione. Anzi, egli vinse perfino la forza della corruzione, tornando da sé all'esistenza «libero fra i morti». Infatti risuscitò sgominando la morte; anzi ascese al Padre, come dono offerto quale primizia dell'umana natura, rinnovata nella incorruttibilità. «Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore» (Eb 9,24). Che egli sia quel pane di vita disceso dal cielo; che inoltre rimetta i peccati e liberi gli uomini dalle loro trasgressioni offrendo se stesso a Dio Padre in soave odore, lo potrai ben capire se con gli occhi della mente lo consideri come quel vitello sacrificato e quel capro immolato per la colpa del popolo. Cristo infatti ha offerto la sua vita per noi,per cancellare i peccati del mondo. Perciò, come nel pane vediamo Cristo, vita e datore di vita, nel vitello lo vediamo immolato mentre di nuovo offre se stesso a Dio Padre in odore di soavità, e nella figura del capro lo contempliamo divenuto per noi peccato e vittima per i peccati, così possiamo anche considerarlo come un manipolo di frumento. Che ciò sia vero, lo spiegherò brevemente.
Il genere umano può essere paragonato al grano nel campo: nascendo dalla terra, in attesa della sua conveniente crescita è strappato via via dalla morte lungo il corso del tempo. Così disse Cristo stesso ai suoi discepoli: «Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna»  (Gv 4,35-36). Perciò coloro che vivono sulla terra sono giustamente da paragonarsi alla messe dei campi. Cristo, nascendo dalla santa Vergine, è sorto in mezzo a noi come una spiga di frumento. Egli stesso anzi, si definisce come un grano di frumento: «In verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Perciò egli si è fatto davanti al Padre come un anatema, o come qualcosa di consacrato e immolato per noi, simile a un manipolo di spighe, primizia della terra. Un'unica spiga, ma considerata non sola, bensì unita a tutti noi, che, come un manipolo formato da molte spighe, siamo un solo fascio. Questo esempio è necessario al bene e al progresso delle anime e chiarisce la figura del mistero. Cristo Gesù infatti è uno solo, ma può essere considerato, ed è realmente, come un manipolo compatto di spighe, in quanto contiene in sé tutti i credenti, in una mirabile unità spirituale. Altrimenti perché il beato Paolo avrebbe scritto: «Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli» (Ef 2,6). Essendo egli uno di noi, siamo diventati concorporei con lui e mediante la sua carne abbiamo ottenuto l'unione con lui. Per questo, egli stesso, in un altro punto, rivolge a Dio Padre queste parole: « Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola» (Gv 17,21).

Dal «Commento sul libro dei Numeri» di san Cirillo di Alessandria, vescovo.


Lunedì 16 marzo 2015
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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