Carmelitani scalzi Provincia Veneta Lectio divina del Vangelo della V Domenica di Quaresima (anno B)

Lectio divina del Vangelo
della V Domenica di Quaresima (anno B)
Letture: Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33
Siamo giunti quasi al termine del nostro cammino quaresimale: nel contesto cronologico
del Vangelo di questa Domenica Gesù è appena entrato trionfalmente a Gerusalemme per la
Pasqua, la sua ultima Pasqua (Gv 12,12-19). Questa è, infatti, la festa di cui ci parla il versetto
iniziale:

Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci (Gv 12,20)
Chi sono questi Greci? Essi rientrano nella categoria dei cosiddetti “timorati di Dio”, pagani che
si sono avvicinati alla fede israelitica, come il centurione Cornelio (At 10,2.22) o i destinatari dei
discorsi di Paolo (At 13,16.26). È naturale quindi che si rivolgano all’apostolo Filippo (già il suo
nome è greco) della citta di Betsàida, città di confine e limitrofa alle regioni pagane. Città di
periferia, come direbbe Papa Francesco. E proprio grazie a questo apostolo di periferia,
Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore,
vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù
(Gv 12,21-22)
In questa domanda dei Greci che “vogliono vedere Gesù” non dobbiamo rilevare una semplice
curiosità. Né un semplice dato sociologico sui contatti religiosi fra le popolazioni della Palestina
del I secolo d. C. In questo contatto fra “i Greci” e Cristo c’è qualcosa di molto più profondo ed
epocale che sta succedendo, che sta venendo a compimento, come mise magistralmente in
evidenza Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona:
“L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san
Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì
la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere
interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede
biblica e l'interrogarsi greco […] Il Nuovo Testamento, infatti, è stato scritto in lingua greca e
porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo
precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della
Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che,
appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni
di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”1
.
Quel che il Papa emerito intendeva dire è che è stato grazie al pensiero greco, al suo
patrimonio culturale e filosofico, e infine alla sua lingua, se la Rivelazione biblica ha potuto
proclamare con irripetibile chiarezza e definitività che al principio di tutto c’è un Dio che è λόγος
- lógos, che si può tradurre tanto con Ragione quanto con Parola - come ha scritto l’autore del
Vangelo di questa Domenica nel prologo della propria opera, aggiungendo che questa Ragione
non è incomprensibile e inattingibile, ma che s’è fatta carne ed “ha posto la tenda” (Gv 1,14) in
mezzo a noi. Benedetto XVI ricordava ciò, citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo,
per affermare che un cristiano non potrebbe mai e poi mai voler imporre la fede con la violenza
(e se in passato lo si è fatto - e lo si è fatto - è stato per errore e se ne è chiesto perdono), perché
questo sarebbe contro Ragione, e quindi contro Dio. Non così di Dio potrebbe argomentare chi

1 Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza - Aula Magna dell’Università di Regensburg - 12 settembre
2006.
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crede che Dio sia completamente al di là della ragione, totalmente altro dalla nostra ragione con
la quale non avrebbe nulla da spartire. A questo riguardo, in questi tristi giorni, non possiamo
non pensare al califfato islamico e a quanto sta avvenendo ai nostri poveri fratelli in Medio
Oriente.
Ma, aggiunge Benedetto XVI, per quanto la nostra ragione sia a immagine della Sua
Ragione e ci sia fra esse analogia e somiglianza, per la differenza fra Creatore e creature e per la
ferita del peccato originale permane anche una certa dissomiglianza: dissomiglianza che non sarà
mai irragionevolezza per la nostra ragione, ma – e veniamo al cuore del Vangelo di questa
domenica – potrà tuttavia ad essa mostrarsi come violenza e assurdità: la Croce2
. Croce posta da
Gesù sin dall’inizio della sua autopresentazione:
Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato (Gv 12,23)
È significativo che questa risposta venga data a una richiesta ben precisa che i Greci fanno: vedere
Gesù. Gesù risponde sin da ora che vedere Gesù significherà vedere la glorificazione del Figlio, e
più tardi aggiungerà che la glorificazione del Figlio è la glorificazione del Padre (cf. Gv 13,31;
17,1), perché chi vede Lui vede Dio (Gv 12,45). Ma come per vedere la Gloria di Dio Mosè aveva
dovuto nascondersi in un antro di roccia e vederlo passare di spalle (Es 33,22s.) così noi per vedere
la Gloria del Padre dovremmo scrutarLa sub specie contraria, nel Figlio innalzato sulla Santa Croce.
È infatti a questa che allude l’espressione fatidica “l’ora”, presente nella risposta di Gesù in Gv
12,23 e che rintocca per tutto il corso del Quarto Vangelo (Gv 2,4; 4,21.23; 5,25.28; 7,30; 8,20, 12,27;
13,31; 16,25.32; 17,1),
Ora, che la Gloria del Figlio e del Padre si manifesti in questo modo è più che ragionevole, ci
sembra argomentare Gesù solennemente:
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece
muore, produce molto frutto (Gv 12,24)
Ecco condensata in un’immagine la legge eterna della Creazione, che come filo rosso si dipana
dal Dio altissimo, che l’ha posta, sino al più minuscolo chicco di grano: per dare frutto bisogna
morire. È logico, ci dice Gesù, lo capisce anche un chicco di grano. Ci siamo soffermati molto su
questa legge nelle scorse Domeniche, la meditazione di essa è il tesoro più prezioso della
Quaresima. Perché ci dice che seguire questa legge equivale ad essere come Gesù e, quindi, a
essere perfetti come il Padre è perfetto (Mt 5,48). Se dopo il peccato originale era naturale che la
salvezza non potesse compiersi se non con l’effusione del sangue (provocata dall’odio che si
riversa sull’Amore necessariamente, là dove esso appaia in un mondo dominato dal peccato),
anche prima del peccato originale questa legge sussisteva, e Dio di fatto nel creare ha “ferito” in
qualche modo sé stesso, lasciando spazi aperti a quel nulla da cui è stato tratto il creato, e in cui
ha potuto cominciare a muoversi il nostro libero arbitrio, fra i doni più grandi che Dio ci ha dato
nel Suo amore. E così anche per Adamo: affinché fosse formata Eva, è stato necessario che gli
venisse aperto il costato. Ma se prima del peccato originale queste ferite creatrici erano del tutto
naturali e non dolenti, dopo il peccato esse diventeranno lacerazioni mortalmente dolorose: come
il costato aperto sulla croce del nuovo Adamo, Cristo. Ma sarà proprio Lui, appunto, a darci la
forza di sopportare e addirittura di desiderare queste ferite che generano vita, queste creatrici
cicatrici: perché il chicco di grano che muore, che è Lui, non è soltanto una bella immagine, ma
qualcosa che molto concretamente muore in noi e porta frutto in noi. Non è un caso che Gesù

2 1Cor 1,18 La parola della croce (“il lògos della croce”) infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che
si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio.
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abbia scelto l’immagine del grano e non un'altra. È col grano che si fa il pane. Ed è col pane che
sarà fatto il Sacramento più grande che lascerà alla Sua Chiesa, il fondamento e l’alimento
principale de cui Essa trae ogni sua forza. Tutto ciò la liturgia ce lo farà vivere con immediatezza
nella celebrazione di Domenica prossima, facendoci riascoltare queste parole di Gesù sul chicco
di grano precisamente nel momento in cui andremo a ricevere l’Eucaristia: l’Antifona alla
Comunione infatti non è che la citazione di Gv 12,24-25. Comprenderemo allora che “la terra” in
cui cade il chicco di grano per morire siamo noi, la “terra d’Egitto” di cui parla la I lettura (Ger
31,31-34), da cui Dio ci porta via prendendoci per mano, e scrivendo la Legge non più su tavole
di pietra ma sul cuore nuovo che è il Suo, quel chicco di grano spampanato per noi e trapiantato
in noi.
S. Teresa di Gesù Bambino, a lungo fraintesa come la santina delle sdolcinature, comprese
bene questa dura ma meravigliosa Legge, rivolgendosi con le seguenti parole a sua sorella Sr.
Agnese di Gesù, circa il suo sofferto priorato nel Carmelo di Lisieux: “Da quasi tre anni ho la
felicità di contemplare le meraviglie che Gesù opera per mezzo della mia Madre diletta. Vedo che
solo la sofferenza può generare le anime e più che mai le sublimi parole di Gesù mi svelano la loro
profondità: «In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano non muore, produce molto frutto».
Che messe abbondante lei ha raccolto! Ha seminato nelle lacrime, ma presto vedrà il frutto delle
sue fatiche, tornerà piena di gioia portando covoni fra le mani. O Madre, tra questi covoni fioriti
il fiorellino bianco se ne sta nascosto, ma in Cielo avrà una voce per cantare la dolcezza e le virtù che
le vede praticare ogni giorno nell’ombra e nel silenzio della vita d’esilio”3
.
Compresa dunque, con i Greci, la logicità e la ragionevolezza di questa legge di morte e
amore - che Lui per primo vivrà sulla propria pelle - siamo pronti ad applicarla a noi stessi,
secondo il prosieguo del Suo discorso:
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita
eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il
Padre lo onorerà (Gv 12, 25-26)
Da un punto di vista esegetico non sarà semplice erudizione confrontare questi versetti con i passi
paralleli dei Vangeli sinottici (Mt 10,38-39; 16,24-25; Mc 8,34-35; Lc 9,23-25): in tutti questi passi è
espresso lo stesso appello da parte di Gesù a rinunciare a sé stessi per seguirlo, a perdere la
propria vita per ritrovarla. In Giovanni Gesù esprime lo stesso concetto ma racchiuso da due
splendide parentesi: la prima è che ogni nostra rinuncia, ogni nostra pretesa o sforzo di seguirlo
è preceduto dal fatto che il chicco di grano, Lui, è già morto per noi: ogni nostro frutto è il Suo
portar frutto, come grani della spiga nata dal suo chicco caduto in terra. La seconda parentesi,
che chiude il suo appello a seguirlo, è che “il Padre lo onorerà” (“Con quale onore, se non quello
di poter essere suo figlio?” Commenterà S. Agostino): l’imitazione e la sequela di Cristo non
saranno soltanto nella Passione, aspetto sottolineato dai sinottici, ma anche nella Gloria che Dio

3 Storia di un’anima, Manoscritto A, 81r° (cf. S. Teresa di Gesù Bambino, Opere complete, Libreria Editrice Vaticana –
Edizioni OCD 2009). S. Teresina trascriverà inoltre Gv 12,24 in una delle sue “immagini bibliche” (segnalibri da lei
composti per il suo breviario, riportanti foto o immagini corredate da citazioni scritturistiche), accanto alla propria
foto nei panni di Giovanna d’Arco in prigione, scattata in occasione del dramma approntato in monastero per
inscenare il martirio di quest’ultima. Per capire quanto S. Teresina potesse essersi immedesimata nel ruolo, dobbiamo
ricordare che al momento della foto era entrata da pochi mesi (aprile 1896) nelle “tenebre più fitte”, come le definirà.
Fu la prova della fede che sarebbe durata sino alla sua morte e che l’avrebbe gettata, nella più grande aridità
spirituale, nello stesso terreno dei lontani da Dio, affinché, morendovi come il chicco di grano, potesse portarvi il
frutto della propria fede, speranza e carità.
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darà ai suoi servitori. Questo perché nel Vangelo di Giovanni Passione e Risurrezione sono
strettamente unite, e la glorificazione attesa da Gesù può riferirsi, come abbiamo visto, tanto
all’una quanta all’altra.
Ma lasciamo ora illustrare a un altro Giovanni, il nostro Padre Giovanni della Croce, questo
appello rivoltoci dal Signore. Dalla Salita del Monte Carmelo: “6. Chi potrà far comprendere fin
dove il Signore vuole che arrivi questa rinuncia? Essa dev’essere, certamente, come una morte e
un totale annientamento temporale, naturale e spirituale in relazione alla volontà, nella quale si
opera ogni rinuncia. Ciò è quanto intende dirci il Signore quando afferma: Chi ama la sua vita la
perde (Gv 12,25), cioè: chi vorrà possedere qualcosa o ricercarla e tenerla gelosamente per sé, la
perderà. Ma chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà (Mt 10,39, cioè: chi per amore
di Cristo rinuncia a tutto ciò che può desiderare e gustare, scegliendo ciò che più assomiglia alla
croce – il Signore stesso nel vangelo di san Giovanni chiama quest’atteggiamento odiare la
propria vita (Gv 12,25) –, costui la guadagnerà. Tale è l’insegnamento che il Signore offrì a quei
due discepoli che gli chiedevano di sedere alla sua destra e alla sua sinistra. Egli non diede loro
alcuna speranza di raggiungere la gloria richiesta, ma offrì il calice, che egli stesso avrebbe bevuto,
come la cosa più preziosa e più sicura su questa terra, piuttosto che il godimento (Mt 20,20-22). 7.
Bere questo calice significa morire alla propria natura, spogliandola e mortificandola in tutto ciò
che riguarda i sensi, come ho detto, e in tutto ciò che riguarda lo spirito, come ora dirò, cioè nel
suo modo d’intendere, di gustare e di sentire, perché la persona possa camminare per lo stretto
sentiero. Così non solo sarà liberata da ciò che viene dai sensi e dallo spirito, ma, in ciò che
riguarda quest’ultimo, essa non inciamperà in nessun ostacolo lungo l’angusto cammino. Qui,
infatti, c’è posto solo per l’abnegazione – come lascia intendere il Signore – e per la croce, il
bastone cui appoggiarsi, che rende il cammino più facile e agevole. Per questo il Signore afferma
nel vangelo di san Matteo: Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11,30). Il giogo è la
croce che l’uomo deve impegnarsi a portare, il che significa decidersi davvero a voler cercare e
sopportare ogni sorta di fatiche per amore di Dio. Solo così troverà in esse grande sollievo e
dolcezza nel percorrere questo cammino, privo di tutto, senza volere nulla. Se, invece, pretende
di appropriarsi di qualcosa, proveniente da Dio o da altrove, non procede spoglio e distaccato da
tutto e, pertanto, non potrà imboccare né percorrere questo stretto sentiero sino alla vetta. 8. Per
questo motivo vorrei convincere le persone spirituali circa il fatto che questo cammino che porta
a Dio non consiste nella molteplicità delle meditazioni, nei metodi, negli esercizi, nei gusti –
sebbene tutto questo sia in qualche modo necessario ai principianti –, ma in una sola cosa
indispensabile: nel saper rinnegare davvero se stessi, esteriormente e interiormente, offrendosi
alla sofferenza per amore di Cristo e annientandosi in tutto. Esercitandosi in tali cose, si possono
acquisire tutti quei beni e di più grandi; se, invece, si trascurano, siccome esse sono compendio e
radice delle virtù, ogni altra pia pratica è dispersione inutile, anche se quelle persone abbiano
meditazioni e comunicazioni pari a quelle degli angeli. In realtà, si fa progresso solo imitando
Cristo, che è la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me, come dice
egli stesso nel vangelo di Giovanni (Gv 14,6). E altrove: Io sono la porta: se uno entra attraverso
di me, sarà salvo (Gv 10,9). Di conseguenza, non riterrei per buono quello spirito che volesse
camminare attraverso dolcezze e agiatezze, e rifiutasse d’imitare Cristo”4
.
Sono parole dure, che non fanno sconti, ed è bene rileggerle in questo santo periodo
quaresimale. Ma non scoraggiamoci – si noti come S. Giovanni parli della croce anche come dolce

4 2S 7,6-8. Cf. S. Giovanni della Croce, Opere, Edizioni OCD 2001.
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giogo e bastone di supporto – e teniamo presente che se queste parole ci turbano è un buon segno
perché anche in questo turbamento stiamo imitando il nostro Signore:
Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo
sono giunto a quest'ora! (Gv 12,27)
Così come fu premonitrice di questo turbamento nostra madre Maria, all’annuncio dell’angelo5
.
Guai a non provare questo turbamento! Sarebbe segno che non stiamo prendendo sul serio il
Signore, e che ci stiamo facendo prendere dalla “globalizzazione dell’indifferenza”, o dalla
“mondanità spirituale”, patologie anestetizzanti da cui Papa Francesco ci sta sovente mettendo
in guardia. Se di fronte alla prospettiva della croce non proviamo nulla, vuol dire che in fondo
non la vogliamo prendere. Mentre Gesù ha voluto vivere questo turbamento con tutto se stesso,
perché “Cristo ci ha trasferiti in sé; ha voluto provare in sé, il nostro capo, le emozioni e l’angoscia
delle sue membra. Egli, il mediatore tra Dio e gli uomini, che ha suscitato in noi il desiderio delle
cose supreme, ha voluto patire con noi le cose infime”6
. E noi siamo capaci di fare altrettanto con
le altre membra disperse del Suo corpo, che soffrono in Iraq, in Siria, o sotto casa? Siamo capaci
di vedere la Gloria di Dio nella croce? Prevedendo la nostra fatica in questo compito, Gesù torna
ad associare insistentemente la sua glorificazione al turbamento della Passione, all’”ora” da cui
non vuole essere risparmiato.
«Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò
ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo
gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo
mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori (Gv 12,28-31)
….o “sarà gettato giù”, come riporta una interessantissima variante testuale7 che renderebbe con
maggiore chiarezza la forte contrapposizione tra l’andar giù del principe di questo mondo e
l’essere innalzato di Gesù (come verrà detto nel versetto successivo). In mezzo ci sarebbe il
giudizio di questo mondo: il discrimine, in greco κρίσις - krísis, dal verbo kríno, ‘discerno, divido’.
Il senso è quello colto da Simeone al momento della Presentazione al Tempio di Gesù (Lc 2,34):
«Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione».
È davanti a questo segno di contraddizione pienamente palesato, la Croce, che ci decideremo –
ancor prima del Giudizio Universale, a partire da tutte le croci della nostra vita quotidiana – se
andare giù col nemico o essere innalzati insieme a Gesù.
Inoltre, potremmo leggere il versetto quasi alla lettera, per comprenderlo sotto altra luce:
“Ora è la crisi di questo mondo”.
“Questo momento di crisi, stiamo attenti, non consiste in una crisi soltanto economica; non è una
crisi culturale. È una crisi dell’uomo: ciò che è in crisi è l’uomo! E ciò che può essere distrutto è
l’uomo! Ma l’uomo è immagine di Dio! Per questo è una crisi profonda! In questo momento di
crisi non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella solitudine, nello
scoraggiamento, nel senso di impotenza di fronte ai problemi. Non chiudersi, per favore!”8
.

5 Lc 1,29 A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.
Vi ricorre lo stesso verbo di Gv 12,27, (δια)ταράσσω – (dia)taràsso.
6 Cf. Agostino, In Evangelium Ioannis tractatus, LII, 1.
7 Dell’autorevole Codice di Koridethi (Georgia, IX secolo) che riporta κάτω (‘giù’) anziché ἔξω (‘fuori’), il che è
senz’altro lectio difficilior.
8 Francesco, Veglia di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, Piazza S. Pietro
- 18 maggio 2013.
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Perché chiudersi, evidentemente, è proprio quello che il chicco di grano non deve fare, a meno
che non voglia rimanere solo e senza frutto.
Per premunirci da questo rischio, così grande, Gesù invoca l’aiuto del Padre, della Sua
testimonianza riferita in 12,28. E che questa testimonianza non valesse solo per i contemporanei
di Gesù, ma anche per noi oggi, ce lo dice il nostro S. Giovanni della Croce: “Secondo S. Giovanni
[evangelista], discese una voce dal cielo anche su Nostro Signore mentre stava pregando il Padre
in mezzo alle angustie e alle afflizioni procurategli dai suoi avversari; si trattava di una voce
interiore dalla quale fu confortato nell'umanità, il cui suono ai Giudei sembrò così grave e
impetuoso che gli uni affermarono essere stato un tuono e gli altri che gli aveva parlato un Angelo
del cielo (12,28). Invece per mezzo di quella voce udita all'esterno si voleva far capire
simbolicamente la forza e il potere che il Cristo riceveva interiormente nella sua umanità. In
seguito a quanto è stato detto non si deve concludere che l'anima cessa di ricevere nell'intimo il
suono della voce spirituale. Si deve anzi notare che la voce spirituale è l'effetto prodotto da essa
nell'anima, come quella sensibile imprime il suono nell'udito e l'idea nello spirito”
9
. Tutto ciò è
detto a proposito delle “acque rumorose” che l’anima canta nelle strofe 14-15 del Cantico
Spirituale: “l’Amato è le montagne / le valli solitarie e ricche d’ombra / le isole esotiche / le acque
rumorose / il sibilo delle aure amorose / È come notte calma / molto vicina al sorgere dell’aurora
/ musica silenziosa / solitudin sonora / è cena che ristora e che innamora”. È la voce incoraggiante
che, proprio come Gesù, l’anima in procinto di unirsi a Dio ode nello stadio del suo fidanzamento
spirituale. Ciò avviene “dopo un lungo esercizio spirituale” (CB 14,2) che è precisamente
l’esercizio della rinuncia a sé stessi per amor suo, trattato nel passo citato poc’anzi dalla Salita del
Monte Carmelo (2S 7,8). Proprio in questo stadio, così quaresimale (“in mezzo alle angustie e alle
affilizioni”), si incominciano a intravedere e pregustare, nella cena che ristora e innamora, quali
gioie e tesori si dischiudano per il chicco di grano che sappia morire a se stesso.
Ora, è bellissimo notare come quella voce divina con tutti i suoi segni distintivi (per il
tuono cf. Es 9,28; 2Sam 22,14; Gb 37,5; Sal 18,14; 81,8; Ger 51,6), che nei sinottici e nella II Domenica
di Quaresima ascoltammo sul monte Tabor, al momento della Trasfigurazione, la riudiamo ora
in Gv 12, nell’ora in cui sta per scoccare la Passione, la “Sfigurazione”. Giovanni nel suo Vangelo
non ha raccontato l’episodio della Trasfigurazione proprio per suggerirci quello che
comprendemmo già per la II Domenica di Quaresima, e che Gesù non si stanca di ripetere: che la
piena manifestazione della Gloria di Dio non è avvenuta sul Tabor, ma avverrà fra poco, nel
“mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione”10
,
mistero che è tutto condensato nelle ultime parole che Gesù ci consegna nel Vangelo di questa
quinta Domenica di Quaresima:
E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte
doveva morire. (Gv 12,32)
È risaputo che nel Vangelo di Giovanni sono narrati sette segni (σημεῖα – semeîa) con cui Gesù
manifestò al mondo la sua Gloria, cominciando da Cana di Galilea (cf. Gv 2,11)11
. Meno noto,

9 CB 14-15,11.
10 Sacrosanctum Concilium 5.
11 Ecco la progressione dei sette segni: I) trasformazione dell’acqua in vino (Gv 2); II) guarigione del figlio del
funzionario regio (Gv 4); III) guarigione del paralitico della piscina di Betzatà (Gv 5); IV) cammino sulle acque e V)
moltiplicazione dei pani (Gv 6); VI) guarigione del cieco nato (Gv 9); VII) resurrezione di Lazzaro (Gv 11).
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forse perché più nascosto nel testo12, è un ottavo segno, che li compendia tutti, e che Gesù sta
indicando esattamente ora: la Croce, il “segno di contraddizione”.
Giovanni della Croce lo comprese perfettamente: “[Sulla croce] fu l’abbandono più desolante, a
livello affettivo, da lui provato durante la sua vita. In esso, però, compì l’opera più grande di tutta
la sua vita, quella che sorpassa i miracoli e ogni altro evento compiuto sulla terra e in cielo, cioè
la riconciliazione del genere umano e la sua unione con Dio per mezzo della grazia” (2S 7,11).
Questo avvenne per tramite del Suo innalzamento, per tramite dell’attrazione di tutti gli
uomini a Sé nel mistero pasquale di Passione e Risurrezione. «Quando avrete innalzato il Figlio
dell'uomo, allora conoscerete che Io Sono» aveva detto Gesù in Gv 8,28: è sulla Croce che è scritto
il nome di Dio. Questa è la Sua definitiva glorificazione e rivelazione. Ma anche la nostra, e di
tutto l’universo, aggiunge il nostro Padre Giovanni, dando un’interpretazione inebriante e per
nulla scontata delle parole di Gesù riportate in Gv 12,32. Lo fa nel commento della quarta strofa
del suo Cantico Spirituale:
“E, mentre li guardava,
solo con il suo sguardo
adorni li lasciò d'ogni bellezza.
4 - Secondo quanto afferma S. Paolo, il Figlio di Dio è lo splendore della gloria del Padre e
l'immagine della sua sostanza (Eb 1, 3). È dunque da osservare che Dio con la sola immagine di
suo Figlio guardò tutte le cose; dando loro l'essere naturale, comunicando molte grazie e doni
naturali, facendole infinite e perfette secondo le parole del Genesi (1,31): Dio guardò tutte le cose
che aveva fatto ed erano molto buone. Vederle molto buone equivale a farle molto buone nel
Verbo, suo Figlio. Guardandole, non soltanto comunicò loro l'essere e le grazie, ma con questa
immagine di suo Figlio le lasciò rivestite di bellezza, comunicando loro l'essere soprannaturale.
Ciò accadde quando Egli si fece uomo, innalzando questo alla bellezza di Dio e per conseguenza
in lui tutte le creature, poiché, facendosi uomo, si unì con la natura di tutte quelle. Perciò il
medesimo Figlio di Dio dice: Si ego exaltatus a terra fuero, omnia traham ad me ipsum cioè: Quando
sarò alzato da terra, trarrò a me tutte le cose13
. E così, in questa glorificazione dell'Incarnazione
del Figlio suo e della sua Resurrezione secondo la carne, Dio abbellì le creature non solo in parte,
ma le lasciò rivestite completamente di bellezza e di dignità”.
Ai Greci che volevano vedere Gesù, queste parole rispondono che Lui li stava guardando da
sempre. In questo sta il mistero grande dell’innalzamento del Cristo sulla Croce, mistero centrale
di un trittico ai cui lati sono la Sua Nascita e la Sua Resurrezione. Mistero della Nuova Creazione
e della Nuova Alleanza, tramite cui siamo rifatti a Sua immagine e ricapitoliamo il creato in Lui,
se solo vogliamo rispondere a questo sguardo di bellezza.
Iacopo Iadarola

12 Gv 12, 32 Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Qui in greco ‘indicare’ è il verbo σημαίνω - semaíno, dalla stessa radice dei σημεῖα – semeîa. Traducendolo con
“significare” potremmo recuperare tale nesso.
13 S. Giovanni della Croce traduce alla lettera, con “tutte le cose”, il testo biblico tramandatoci dalla Vulgata, recante
omnia. Oggi non leggiamo più così, in quanto il testo ufficiale della Chiesa, la Nova Vulgata, reca omnes, da tradurre
con “tutti”. L’antica lettura omnia, tuttavia, è ben probabile e degna di essere ricordata, in quanto traduzione di un
originario testo greco recante πάντα attestato da due testimoni fra i più autorevoli: il Codice Sinaitico (IV secolo) e
il Papiro 66, fra le più antiche testimonianze del Nuovo Testamento, risalente al 200 d. C. circa

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