CIPRIANI SETTIMO SDB "E il giudizio è questo... gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce"
15 marzo 2015 | 4a Domenica - T. Quaresima B | Appunti per la Lectio
Anche se la Liturgia della quarta Domenica di Quaresima è introdotta da un'antifona che dovrebbe qualificarla come Domenica di gioia, di esultanza (Domenica "Laetare", appunto), di fatto il contenuto espresso nelle varie letture bibliche è "grave", invitante più ad una meditazione dalle decisioni taglienti e sofferte che ad un sobbalzo di felicità.
Il tema dominante, infatti, è quello del "giudizio" di Dio, a cui sottostanno le vicende umane, piccole e grandi, dei singoli e delle collettività, che egli soppesa e valuta in base alla capacità che gli uomini avranno avuto di cogliere in ogni cosa le tracce del suo disegno e della sua presenza. Ma questo sarà possibile solo a condizione di lasciarsi "illuminare", per mezzo della fede, dalla parola di Dio, che trova il suo culmine in Cristo: con lui "la luce è venuta nel mondo" (Gv 3,19) e non c'è che da farsi avvolgere e rischiarare dal suo fulgore. Nascondersi alla "luce" è già un cadere sotto il "giudizio", cioè sotto la condanna di morte.
"Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio..."
Mi sembra che questo tipo di discorso, anche se sarà sviluppato più direttamente nel brano del Vangelo di Giovanni (3,14-21), sia già presente nella prima lettura, in cui l'autore del libro delle Cronache, facendo una rilettura "critico-sapienziale" delle vicende storiche di Israele, che si erano concluse drammaticamente con l'esilio e la deportazione babilonese, così commenta: "Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l'ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio..." (2 Cr 36,15-16).
In tutto quello che è avvenuto a Israele l'autore sacro vede, dunque, il "giudizio" punitivo di Dio perché Giuda non ha ascoltato le "parole" ammonitrici dei profeti, è stato sordo ai richiami accorati e "premurosi" del suo Signore; il quale, però, "fedele" alla sua alleanza, fa intravedere un ulteriore barlume di speranza nell'editto di liberazione di Ciro (538 a.C.), con cui ha termine l'esilio babilonese: "Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta" (v. 23).
"Dio, ricco di misericordia..."
È forse riguardando a questo atto finale del dramma che la Liturgia esprime anche un senso di esultanza che ne giustifica in parte l'appellativo di Domenica "Laetare", dalle parole con cui si apre l'antifona introitale: "Rallegratevi, Gerusalemme, e voi tutti che l'amate riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza..." (Is 66,10-11).
Anche la seconda lettura, ripresa dall'epistola agli Efesini, puntando più sull'esito felice della redenzione che non sulla misura di sofferenza che essa è costata a Cristo, contiene un implicito invito alla gioia: "Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli..." (Ef 2,4-6).
Come si vede, è un anticipo della squillante gioia pasquale che qui si esprime, per non farci perdere di vista la "meta" a cui l'austera celebrazione quaresimale ci sospinge.
"Come Mosè innalzò il serpente nel deserto..."
Come abbiamo già accennato, è soprattutto il brano di Vangelo di Giovanni che sviluppa il tema severo del "giudizio" sulla vita di ogni uomo: "giudizio", che trova la sua manifestazione più clamorosa nell'"innalzamento" di Gesù sulla croce.
È davanti a questa manifestazione sovrana dell'amore di Dio in Cristo che la vita di ogni uomo viene "discriminata", messa come allo scoperto, giustificata o condannata: chi accetta il dono di quell'amore e ne fa la misura della propria vita, è già riscattato dalla vacuità dell'esistenza e si trova nello spazio, direi anche fisico, della salvezza; chi si chiude invece a quel dono di amore rimane solo in se stesso, incapace di assumere la "gratuità" come norma del suo agire e perciò già "condannato" per la sua durezza di cuore e per l'angustia del suo orizzonte spirituale. Perché voler rimanere nelle tenebre quando, tutto all'intorno, brilla accecante e festosa la luce?
Ma analizziamo più da vicino il Vangelo di Giovanni. I primi due versetti fanno ancora parte del discorso di Gesù con Nicodemo, anzi ne rappresentano il punto più alto: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna" (3,14-15).
La "rinascita" dall'alto, di cui precedentemente ha parlato con Nicodemo (3,3-13), è possibile solo a condizione di saper "riguardare" a Gesù "innalzato" sull'albero della croce: questo "innalzamento" è da intendersi in senso fisico ma anche, e soprattutto, in senso teologico e spirituale, per l'ambivalenza che san Giovanni dà al termine ypsóo (= innalzo). Gesù sulla croce viene "innalzato" perché viene presentato al mondo come il "segno", come la "rivelazione" più grande dell'amore di Dio, come si dirà al v. 16: "credere" perciò a questo amore di Dio, significa dargli gloria, celebrarlo, "esaltarlo".
Cristo "esaltato" nel cuore degli uomini che credono al suo amore, poi, è come una conferma della "esaltazione" più grande che Dio concederà al Figlio nella gloria della risurrezione e della sua ascensione al cielo.
Ma l'amore si esalta, soprattutto, "vivendolo": ed è per questo che la "rinascita" del cristiano avverrà solo nella dimensione dell'amore. Quando più tardi Gesù, nell'imminenza della sua passione, adoperando quasi le stesse parole, proclamerà: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (12,32), intende affermare non solo la forza calamitante del suo amore, ma anche l'invito ai credenti in lui perché diventino, essi pure, il segno dell'amore di Dio "innalzato" al cospetto di tutti gli uomini.
"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito"
I versetti successivi, che il brano di Vangelo ci propone, a confessione di quasi tutti gli studiosi non sono più parole di Cristo, ma una meditazione solitaria che san Giovanni fa per sé e per i suoi lettori, tentando di leggere più in profondità il "senso" delle sconcertanti affermazioni di Gesù sul suo "innalzamento" sulla croce. È questo solo un gesto di amore, da ricordare e da ammirare con senso di commozione e anche di partecipazione, oppure è una provocazione, un "giudizio" implacabile che si pronuncia sulla nostra vita ad ogni momento, perciò una realtà "presente" e "inquietante" davanti a cui non ci si può nascondere?
È quanto l'evangelista ci dice nei seguenti termini drammatici, che intendono descrivere l'atteggiamento degli uomini di tutti i tempi davanti alla suprema rivelazione di Dio in Cristo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui..." (vv. 16-18).
Parole davvero "sconcertanti" queste dell'evangelista e, al limite, quasi contraddittorie! Un amore immenso, quello di Dio, offerto solo per "salvare" e che alla fine, per alcuni almeno, diventa "giudizio" e "condanna" inappellabile: "Chi non crede è già stato condannato" (v. 18). Come conciliare tutto questo?
La spiegazione è all'interno della grandezza e della luminosità del "dono", offertoci da Dio in Cristo "innalzato" sulla croce: perché è indubbio che quel "dare" (édoken) del Figlio, da parte del Padre, è "darlo alla morte" per noi, che siamo il "mondo", con tutta quella ambiguità che il termine assume in san Giovanni: una realtà mista di bene e di male. Orbene, Dio offre alla morte il suo Figlio, l'"unigenito", quello cioè che non può essere sostituito da nessun altro, per "salvare" questa realtà "ambigua" che è ciascuno di noi: messi, noi e il Cristo, sulla bilancia, questa si è spostata in nostro favore!
Fra la "morte" del Figlio e la nostra "vita", Dio ha preferito noi uomini. È questo che stupisce l'evangelista, che riprende il tema anche nella sua prima lettera quando si sforza di giustificare la sua definizione di Dio come "amore": "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Gv 4,9-10).
"Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce"
Il "giudizio" sugli uomini esplode proprio da questa "grandezza" di amore. Non accoglierlo significa respingere Dio, rinnegare la luce, respingere una "vita" che ci viene offerta. Ma a questo punto è chiaro che il "giudizio" è l'uomo stesso a pronunciarlo sopra di sé: quando si chiudono gli occhi alla luce, non si può rimproverare la "luce" delle nostre tenebre e della nostra cecità!
Ed è precisamente a questa immagine che l'evangelista ricorre per chiarire meglio il suo pensiero: "E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere..." (vv. 19-21).
È qui che tocchiamo il fondo più "oscuro" del cuore dell'uomo: il suo "odio" verso la luce perché mette a nudo le nostre doppiezze, i nostri calcoli, le nostre viltà.
Ma questo non voler "venire alla luce" per timore che siano "svelate" le nostre opere, cioè per sfuggire al "giudizio", è esso stesso un "giudizio", anzi il più terribile: perché sta a testimoniare che l'uomo è talmente immerso nelle tenebre, da non desiderare neppure di uscirne. Si verifica quanto ha detto altrove Gesù: "Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!" (Mt 6,23).
A questo punto è chiaro che l'uomo si è "condannato" per sempre, perché "non ha creduto all'amore" (cf 1 Gv 4,16) manifestatogli da Dio nel Cristo "innalzato" sulla croce; soprattutto perché non ha creduto che la "luce" di Dio che, come una lama tagliente, penetrava nel suo cuore, non voleva "giudicarlo", cioè condannarlo, ma "salvarlo".
E "salvarlo" in special modo da se stesso e dalle sue presuntuose "sicurezze"!
Da CIPRIANI S.,
Anche se la Liturgia della quarta Domenica di Quaresima è introdotta da un'antifona che dovrebbe qualificarla come Domenica di gioia, di esultanza (Domenica "Laetare", appunto), di fatto il contenuto espresso nelle varie letture bibliche è "grave", invitante più ad una meditazione dalle decisioni taglienti e sofferte che ad un sobbalzo di felicità.
Il tema dominante, infatti, è quello del "giudizio" di Dio, a cui sottostanno le vicende umane, piccole e grandi, dei singoli e delle collettività, che egli soppesa e valuta in base alla capacità che gli uomini avranno avuto di cogliere in ogni cosa le tracce del suo disegno e della sua presenza. Ma questo sarà possibile solo a condizione di lasciarsi "illuminare", per mezzo della fede, dalla parola di Dio, che trova il suo culmine in Cristo: con lui "la luce è venuta nel mondo" (Gv 3,19) e non c'è che da farsi avvolgere e rischiarare dal suo fulgore. Nascondersi alla "luce" è già un cadere sotto il "giudizio", cioè sotto la condanna di morte.
"Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio..."
Mi sembra che questo tipo di discorso, anche se sarà sviluppato più direttamente nel brano del Vangelo di Giovanni (3,14-21), sia già presente nella prima lettura, in cui l'autore del libro delle Cronache, facendo una rilettura "critico-sapienziale" delle vicende storiche di Israele, che si erano concluse drammaticamente con l'esilio e la deportazione babilonese, così commenta: "Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l'ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio..." (2 Cr 36,15-16).
In tutto quello che è avvenuto a Israele l'autore sacro vede, dunque, il "giudizio" punitivo di Dio perché Giuda non ha ascoltato le "parole" ammonitrici dei profeti, è stato sordo ai richiami accorati e "premurosi" del suo Signore; il quale, però, "fedele" alla sua alleanza, fa intravedere un ulteriore barlume di speranza nell'editto di liberazione di Ciro (538 a.C.), con cui ha termine l'esilio babilonese: "Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta" (v. 23).
"Dio, ricco di misericordia..."
È forse riguardando a questo atto finale del dramma che la Liturgia esprime anche un senso di esultanza che ne giustifica in parte l'appellativo di Domenica "Laetare", dalle parole con cui si apre l'antifona introitale: "Rallegratevi, Gerusalemme, e voi tutti che l'amate riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza..." (Is 66,10-11).
Anche la seconda lettura, ripresa dall'epistola agli Efesini, puntando più sull'esito felice della redenzione che non sulla misura di sofferenza che essa è costata a Cristo, contiene un implicito invito alla gioia: "Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli..." (Ef 2,4-6).
Come si vede, è un anticipo della squillante gioia pasquale che qui si esprime, per non farci perdere di vista la "meta" a cui l'austera celebrazione quaresimale ci sospinge.
"Come Mosè innalzò il serpente nel deserto..."
Come abbiamo già accennato, è soprattutto il brano di Vangelo di Giovanni che sviluppa il tema severo del "giudizio" sulla vita di ogni uomo: "giudizio", che trova la sua manifestazione più clamorosa nell'"innalzamento" di Gesù sulla croce.
È davanti a questa manifestazione sovrana dell'amore di Dio in Cristo che la vita di ogni uomo viene "discriminata", messa come allo scoperto, giustificata o condannata: chi accetta il dono di quell'amore e ne fa la misura della propria vita, è già riscattato dalla vacuità dell'esistenza e si trova nello spazio, direi anche fisico, della salvezza; chi si chiude invece a quel dono di amore rimane solo in se stesso, incapace di assumere la "gratuità" come norma del suo agire e perciò già "condannato" per la sua durezza di cuore e per l'angustia del suo orizzonte spirituale. Perché voler rimanere nelle tenebre quando, tutto all'intorno, brilla accecante e festosa la luce?
Ma analizziamo più da vicino il Vangelo di Giovanni. I primi due versetti fanno ancora parte del discorso di Gesù con Nicodemo, anzi ne rappresentano il punto più alto: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna" (3,14-15).
La "rinascita" dall'alto, di cui precedentemente ha parlato con Nicodemo (3,3-13), è possibile solo a condizione di saper "riguardare" a Gesù "innalzato" sull'albero della croce: questo "innalzamento" è da intendersi in senso fisico ma anche, e soprattutto, in senso teologico e spirituale, per l'ambivalenza che san Giovanni dà al termine ypsóo (= innalzo). Gesù sulla croce viene "innalzato" perché viene presentato al mondo come il "segno", come la "rivelazione" più grande dell'amore di Dio, come si dirà al v. 16: "credere" perciò a questo amore di Dio, significa dargli gloria, celebrarlo, "esaltarlo".
Cristo "esaltato" nel cuore degli uomini che credono al suo amore, poi, è come una conferma della "esaltazione" più grande che Dio concederà al Figlio nella gloria della risurrezione e della sua ascensione al cielo.
Ma l'amore si esalta, soprattutto, "vivendolo": ed è per questo che la "rinascita" del cristiano avverrà solo nella dimensione dell'amore. Quando più tardi Gesù, nell'imminenza della sua passione, adoperando quasi le stesse parole, proclamerà: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (12,32), intende affermare non solo la forza calamitante del suo amore, ma anche l'invito ai credenti in lui perché diventino, essi pure, il segno dell'amore di Dio "innalzato" al cospetto di tutti gli uomini.
"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito"
I versetti successivi, che il brano di Vangelo ci propone, a confessione di quasi tutti gli studiosi non sono più parole di Cristo, ma una meditazione solitaria che san Giovanni fa per sé e per i suoi lettori, tentando di leggere più in profondità il "senso" delle sconcertanti affermazioni di Gesù sul suo "innalzamento" sulla croce. È questo solo un gesto di amore, da ricordare e da ammirare con senso di commozione e anche di partecipazione, oppure è una provocazione, un "giudizio" implacabile che si pronuncia sulla nostra vita ad ogni momento, perciò una realtà "presente" e "inquietante" davanti a cui non ci si può nascondere?
È quanto l'evangelista ci dice nei seguenti termini drammatici, che intendono descrivere l'atteggiamento degli uomini di tutti i tempi davanti alla suprema rivelazione di Dio in Cristo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui..." (vv. 16-18).
Parole davvero "sconcertanti" queste dell'evangelista e, al limite, quasi contraddittorie! Un amore immenso, quello di Dio, offerto solo per "salvare" e che alla fine, per alcuni almeno, diventa "giudizio" e "condanna" inappellabile: "Chi non crede è già stato condannato" (v. 18). Come conciliare tutto questo?
La spiegazione è all'interno della grandezza e della luminosità del "dono", offertoci da Dio in Cristo "innalzato" sulla croce: perché è indubbio che quel "dare" (édoken) del Figlio, da parte del Padre, è "darlo alla morte" per noi, che siamo il "mondo", con tutta quella ambiguità che il termine assume in san Giovanni: una realtà mista di bene e di male. Orbene, Dio offre alla morte il suo Figlio, l'"unigenito", quello cioè che non può essere sostituito da nessun altro, per "salvare" questa realtà "ambigua" che è ciascuno di noi: messi, noi e il Cristo, sulla bilancia, questa si è spostata in nostro favore!
Fra la "morte" del Figlio e la nostra "vita", Dio ha preferito noi uomini. È questo che stupisce l'evangelista, che riprende il tema anche nella sua prima lettera quando si sforza di giustificare la sua definizione di Dio come "amore": "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Gv 4,9-10).
"Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce"
Il "giudizio" sugli uomini esplode proprio da questa "grandezza" di amore. Non accoglierlo significa respingere Dio, rinnegare la luce, respingere una "vita" che ci viene offerta. Ma a questo punto è chiaro che il "giudizio" è l'uomo stesso a pronunciarlo sopra di sé: quando si chiudono gli occhi alla luce, non si può rimproverare la "luce" delle nostre tenebre e della nostra cecità!
Ed è precisamente a questa immagine che l'evangelista ricorre per chiarire meglio il suo pensiero: "E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere..." (vv. 19-21).
È qui che tocchiamo il fondo più "oscuro" del cuore dell'uomo: il suo "odio" verso la luce perché mette a nudo le nostre doppiezze, i nostri calcoli, le nostre viltà.
Ma questo non voler "venire alla luce" per timore che siano "svelate" le nostre opere, cioè per sfuggire al "giudizio", è esso stesso un "giudizio", anzi il più terribile: perché sta a testimoniare che l'uomo è talmente immerso nelle tenebre, da non desiderare neppure di uscirne. Si verifica quanto ha detto altrove Gesù: "Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!" (Mt 6,23).
A questo punto è chiaro che l'uomo si è "condannato" per sempre, perché "non ha creduto all'amore" (cf 1 Gv 4,16) manifestatogli da Dio nel Cristo "innalzato" sulla croce; soprattutto perché non ha creduto che la "luce" di Dio che, come una lama tagliente, penetrava nel suo cuore, non voleva "giudicarlo", cioè condannarlo, ma "salvarlo".
E "salvarlo" in special modo da se stesso e dalle sue presuntuose "sicurezze"!
Da CIPRIANI S.,
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