don Alberto Brignoli "Altro che marcire: la Croce è vivere!"

V Domenica di Quaresima (Anno B) (22/03/2015)
Vangelo: Gv 12,20-33
Una serie di cause storiche e culturali hanno portato, lungo i secoli, a considerare il cristianesimo una religione "della sofferenza", una religione del dolore. E questo, a partire dalla croce di Gesù, che per noi credenti è un mistero
di fede, ma per chi non esprime la propria fede in Cristo risulta essere solamente un fatto storico, e di certo non dei più gratificanti, anzi: un bravo predicatore (un santone, diremmo oggi) che non ha fatto del male a nessuno, anzi, che ha speso la propria vita per gli altri, a causa dell'invidia dei potenti dell'epoca viene messo ingiustamente a morte, e nella maniera più ignominiosa, come fosse il peggiore dei malfattori. E poiché i suoi discepoli lo proclamano risorto e vivo, ecco che la storia non perde tempo a interpretare questo come un tentativo di rivincita da parte di chi sa che la figura del proprio Maestro in generale non suscita sentimenti gioiosi, perché è una vicenda avvolta dal dolore e dalla sofferenza, tant'è vero che ha per simbolo una croce.
Vista con gli occhi dell'uomo "qualunque" di ogni epoca storica, la vicenda di Gesù di Nazareth è proprio una vicenda di sofferenza, non ha certo le sembianze della vicenda di un Dio glorioso, onnipotente e immortale come potevano essere gli dèi delle grandi civiltà antiche. Lungo la storia, poi, come dicevo, altre situazioni hanno contribuito a far vedere il cristianesimo come una religione dei sofferenti e degli oppressi, che trovano una magra consolazione nella croce quotidiana sofferta dal loro stesso Dio, con la promessa che un giorno questa sofferenza si trasformerà in vita eterna: ma sono cose che riguardano un aldilà sul quale regna la totale incertezza. I filosofi cosiddetti "del sospetto", dall'era moderna in poi, hanno costruito su questi concetti le loro teorie volte a distruggere una filosofia religiosa, quella cristiana appunto, che nel frattempo aveva assunto una grandissima rilevanza a livello mondiale, addirittura con un consistente peso da un punto di vista sociale e politico: smontare, quindi, il pensiero cristiano accentuandone l'aspetto pietoso e consolatorio avrebbe, secondo loro, contribuito anche a fare perdere potere e influenza politica al cristianesimo e alla Chiesa in particolare. E va anche detto che, per molti secoli, proprio questo aspetto legato al potere che la Chiesa esercitava sui propri fedeli, ha contribuito ad accrescere questa immagine "dolorosa e sofferta" del messaggio di Cristo, perché, in fondo, mantenere i fedeli all'interno di questa dimensione di sottomissione e di abnegazione vendendola come volontà del Maestro risultava utile. A tutto questo va aggiunto che le vicende storiche, ovviamente non sempre felici, inducevano i cristiani a leggere le situazioni di sofferenza attraverso questo "filtro" della promessa di una consolazione che verrà solamente "un giorno", e che necessariamente, ora, ci chiede di soffrire, di marcire nella sofferenza, e di accettare con rassegnazione tutto quanto, compresa la morte.
Personalmente sono convinto che un po' di queste idee ce le portiamo ancora dentro, ed emergono quando ascoltiamo e cerchiamo di interpretare brani della Scrittura come quello che la Liturgia di oggi ci propone. Sfido chiunque di noi a dire che le frasi di Gesù nel Vangelo di oggi non ci facciano pensare a situazioni quotidiane di dolore da affrontare con rassegnazione in vista di una grande consolazione: "Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane da solo; se invece muore, porta molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna".
Chi di noi non ha pensato, con questo, a una vita di sacrifici, di abnegazioni, di sofferenze magari anche volontariamente e appositamente ricercate come penitenze, in vista del raggiungimento di un traguardo grande come la vita eterna? Molta della catechesi che abbiamo ricevuto ha insistito su questo, ottenendo come risultato quello che abbiamo descritto prima: l'immagine di una religione, quella cristiana, basata sulla sofferenza e sul dolore, accettati e quasi desiderati in vista di un bene futuro maggiore.
No, il cristianesimo non è sofferenza, il cristianesimo non è abnegazione, il cristianesimo non è morte: la fede in Cristo è l'esatto opposto, ovvero gioia, entusiasmo, donazione di sé e pienezza di vita! Il cristianesimo, con il suo simbolo più efficace, la croce, è esplosione di vita, è un inno alla vita.
Rileggiamo con attenzione questo testo, in cui c'è un gruppo di Greci venuti a Gerusalemme per la Pasqua che vogliono "vedere Gesù", che si sentono attratti da lui (perché "vedere", in Giovanni, non significa guardare con gli occhi, ma entrare in comunione con qualcuno). E Gesù attirerà loro e tutti quanti a sé: Giovanni ci dice nell'ultimo versetto senza mezzi termini che questa attrazione è proprio la croce. Cos'è, quindi, questa croce capace di "attirare a sé", capace di "far entrare in comunione" gli uomini con Dio? È tutto ciò che Giovanni dice (raccogliendo un insieme di detti di Gesù, forse un po' slegati tra di loro) nei versetti che stanno tra questa richiesta dei Greci e la frase finale di Gesù. Gesù pronuncia una sorta di "microparabola": la croce è simile a un chicco di grano che cade in terra. Cade in terra non perché disprezzato o inutile, e quindi buttato via dagli uomini: cade in terra perché questa è la sua funzione, perché la terra è il suo posto. Non cadesse in terra, rimarrebbe lì, in un sacco, in una dispensa, isolato, chiuso, indurito nella sua scorza e - allora sì - un giorno o l'altro non servirebbe più a nulla. Quella che invece solo in apparenza sembra una scorza dura che lo ricopre (abbiamo tutti ben presente quanto poco morbido sia un chicco di grano), nel momento in cui svolge la sua missione, a contatto con la terra, si schiude, si trasforma e diviene germoglio di vita. Certo, il seme non resta più lo stesso di prima: alla sola vista, il germoglio di grano che vediamo di color verde intenso nei solchi dei campi non ha proprio nulla a che vedere con il duro e sbiadito chicco di grano racchiuso nel sacco, e questo ci meraviglia, perché quel chicco di grano non c'è più...è sparito, è finito...sì, d'accordo, diciamolo pure (lo dice pure Gesù): è morto. Ma nel frattempo si è trasformato ed è divenuto esplosione di vita, è germogliato, ha dato frutto, ha contribuito a sfamare e a dare vita.
Tutto questo è la croce: e abbiamo il coraggio di chiamarla morte? Abbiamo il coraggio di definire il cristianesimo una religione della sofferenza e dell'abnegazione? Permettiamo che ci affibbino il nomignolo di "uomini di Serie B", di "gente frustrata" o di "popolo di pecoroni"? Lasciamo che chi non ci conosce dica che siamo gente eternamente infelice in attesa di una consolazione? Beh, se è così, forse abbiamo capito poco della nostra fede cristiana. Il nostro è un Dio della Vita, è un Dio che non si lascia vincere dal "principe di questo mondo" (per usare parole del Vangelo di oggi), è un Dio che accetta la croce (come del resto ognuno di noi) non come una sconfitta, ma come germoglio e come speranza di vita.
È difficile da capire? Rispondo a questa domanda lasciando risuonare le parole di un grande teologo luterano tedesco, Dietrich Bonhoeffer, morto quarantenne settant'anni fa in un campo di concentramento per essersi ribellato a un'ideologia totalizzante, purtroppo mai del tutto morta, che ci teneva a considerare la religione cristiana una cosa per popoli sottomessi: "La croce ci è stata data non per capirla, ma perché ci aggrappassimo ad essa".
Del resto, la fede cristiana così la proclama sin dal VI secolo: "Ave, o Crux, Spes unica" - "Salve, Croce, unica Speranza".

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