CIPRIANI SETTIMO SDB"Prendete, questo è il mio corpo"

7 giugno 2015 | 10a Domenica: Corpus Domini - Anno B | Appunti per la Lectio
"Prendete, questo è il mio corpo"
Proprio nella seconda strofa della "sequenza", facoltativa, di san Tommaso d'Aquino ("Lauda Sion"), nella quale non si sa se ammirare di più il commosso misticismo o la profondità teologica dell'autore, si canta: "Quantum potes, tantum aude / quia maior omni laude, / nec laudare
sufficis"! Si afferma cioè che il mistero eucaristico sta molto oltre quello che noi possiamo balbettare: la nostra lode non è "sufficiente" a coprire la sua grandezza!
È il sentimento che proviamo anche noi nell'accingerci a commentare la Liturgia odierna, che è carica di una infinità di stimoli e di piste di riflessione. Cercheremo di cogliere quelle che a noi sembrano più emergenti da tutta la struttura liturgica.

L'Eucaristia come "memoriale" della Pasqua
E la prima pista di riflessione mi sembra che sia data dall'idea di "memoriale", che è sottolineata sia dalla colletta che dal prefazio: "Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell'Eucaristia, ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa' che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue, per sentire sempre in noi i benefici della redenzione". Nell'Eucaristia, dunque, abbiamo come la condensazione del mistero della "Pasqua", non come rievocazione di un evento storico passato, ma come sua attuale misteriosa "riproduzione".
È quanto ci chiarifica anche meglio il bellissimo prefazio odierno: "Nell'ultima cena con i suoi apostoli, egli volle perpetuare nei secoli il memoriale della salvezza mediante la croce e si offrì a te, agnello senza macchia, lode perfetta e sacrificio a te gradito".
Successivamente si descrivono gli effetti di questo "memoriale" di salvezza: "In questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l'umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo alla mensa di questo grande sacramento perché l'effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria". L'Eucaristia ha anche questo effetto "trasformante": quello di renderci rassomiglianti alla "immagine" della gloria del Padre, quasi immergendoci nella "realtà" di Cristo, che noi assimiliamo quando mangiamo il suo corpo e beviamo il suo sangue.

Il "memoriale" riattualizza la "salvezza"
Proprio questo dice il "realismo" che porta con sé il concetto di "memoriale".
"Questo memoriale non è un semplice ricordo soggettivo, ma un atto liturgico; e non è solo un atto liturgico che rende presente il Signore, ma un atto liturgico che richiama in memoriale davanti al Padre il sacrificio unico del Figlio, che lo rende presente nel suo memoriale, nella presentazione del suo sacrificio davanti al Padre, nella sua intercessione di gran Sacerdote celeste. Il memoriale eucaristico è un richiamo per noi, un richiamo al Padre per mezzo di noi e un richiamo del Figlio al Padre per noi. Sicché il memoriale eucaristico è una proclamazione alla Chiesa, un'azione di grazie ed una intercessione della Chiesa, un'azione di grazie ed una intercessione di Cristo per la Chiesa".
Nella tradizione biblica il concetto di "memoriale" (in ebraico zikkaròn) è applicato soprattutto alla Pasqua ebraica, che non è solo ricordo della prima, lontana liberazione dalla schiavitù egiziana, ma riproduzione di un gesto di salvezza che Dio, per essere fedele a se stesso, attua anche in questo momento, nella situazione in cui ognuno di noi viene a trovarsi.
"In questa prospettiva si capisce come la Mishnàh, parlando dell'evento che la Pasqua ebraica intendeva commemorare riattualizzandolo, potesse scrivere: "In ogni generazione ognuno deve considerarsi come se fosse tratto lui personalmente dall'Egitto"... Quel lontano gesto salvifico, dunque, nella celebrazione liturgica viene ravvicinato e come calato nel presente: Dio salva e libera "oggi", come ieri, il suo popolo".
Su questa scia si colloca il "memoriale" eucaristico, caricandosi naturalmente di intensità, proprio perché il protagonista del mistero pasquale è colui che anche oggi "vive" presso il Padre "per intercedere per noi" (Eb 7,25). Il suo sacrificio di redenzione, perciò, è presente non solo al Padre, ma prima di tutto a lui stesso, che non può non rinnovare la sua volontà di amore e di donazione con cui già si offrì per noi sulla croce.

Mosè "prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo"
Altre due piste di riflessione ci vengono suggerite dalle letture bibliche; esse sono l'aspetto "sacrificale" dell'Eucaristia e la sua realtà di nuova "alleanza". Due elementi che, del resto, si richiamano e si integrano a vicenda.
E incominciamo dalla prima lettura, che ci descrive la pattuizione dell'antica "alleanza", che richiama per certe analogie ed allusioni simboliche la "nuova".
Nei capitoli che precedono, il libro dell'Esodo ci presenta il contenuto dell'alleanza, che si esprime soprattutto nelle "dieci parole", cioè nel Decalogo (Es 19,1-20,21); quindi il così detto "codice dell'alleanza" (20,22-23,32), che è una raccolta di leggi e di costumi, di origine posteriore, ma che si ispirano ai dieci comandamenti. Nel nostro capitolo, invece, si descrive il "rito", con cui si conclude l'alleanza sinaitica fra Dio e il suo popolo. Mosè funge da "mediatore" e, possiamo dire, anche da "liturgo" di questo gesto sacro e solenne.
Dopo aver fatto preparare tutto per un solenne sacrificio di animali al Signore, "... Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: "Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!". Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: "Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!"" (Es 24,3-8).

"Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi"
Le cose più importanti da notare in questo brano sono due. La prima è che l'alleanza, siccome è bilaterale, esige l'osservanza delle "norme" in cui si articola. Perciò abbiamo sentito che il popolo per ben due volte solennemente si impegna ad osservarle: "Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!" (v. 3; cf v. 7). Un'alleanza è sempre vincolante!
La seconda cosa da osservare è che l'alleanza è consacrata con il "sangue" di vittime sacrificali. E questo non soltanto per esprimerne la sacralità, ma anche per sottolinearne la infrangibilità: è la "vita", espressa dal sangue, che intende suggellare il patto. Con il sangue raccolto in catini, per una metà versato sull'altare e per l'altra metà asperso sul popolo, Mosè vuole esprimere plasticamente il legame che unisce in maniera inscindibile Dio, rappresentato qui dall'altare, col suo popolo. L'iniziativa parte da Dio: egli si dona a Israele nel gesto di amore che l'alleanza presuppone e nelle "parole" di promessa e di salvezza, che Mosè "legge alla presenza del popolo" (v. 7); il popolo si lega al suo Dio nella fedeltà e nell'impegno a "vivere", attuandole, quelle "parole".
È quanto si afferma chiaramente nell'ultimo versetto, che riassume il senso di tutto il brano: "Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: "Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!"" (v. 8).

"Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua..."
A queste espressioni di Mosè fa certamente riferimento Gesù, quando istituisce l'Eucaristia e pronuncia le parole di "benedizione" sul vino: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, versato per molti" (Mc 14,24).
Qui, nel testo di Marco, proposto per la Liturgia odierna, manca l'aggettivo: "nuova" (alleanza), come abbiamo invece in Luca (22,20), e in san Paolo (1 Cor 11,25). Ma è sicuro che anche Marco intende dire che, istituendo l'Eucaristia, Gesù ha inaugurato la "nuova" alleanza. E la novità consiste soprattutto nel fatto che egli si identifica in questa alleanza, fino al punto che non offre "sangue di capri e di vitelli" per pattuirla, come ci dirà tra poco la lettera agli Ebrei (9,13), ma "il proprio sangue". È offrendo se stesso che Cristo fa alleanza con gli uomini o, meglio, diventa lui stesso la "nuova ed eterna alleanza".
Omettendo alcuni versetti intermedi (Mc 14,17-21), dove Gesù preannuncia il tradimento di Giuda, la Liturgia, volutamente, colloca il racconto della istituzione dell'Eucaristia nello sfondo "pasquale", che ci aiuta a penetrarne meglio il mistero.
"Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: "Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?". Allora mandò due dei suoi discepoli..." (Mc 14,12-15).
L'insistenza del racconto, come è facile verificare, è sulla Pasqua, che deve essere "mangiata" (vv. 12-14), dopo averla "immolata". Ormai, però, la "nuova" Pasqua è Cristo con il gesto supremo di immolazione della sua vita, di cui l'Eucaristia sarà per un verso l'anticipazione e per un altro verso la riattualizzazione.
Anche la misteriosità del personaggio che i discepoli incontreranno al loro ingresso in città e che ha tutto preparato al "piano superiore" della casa, quasi per una segreta ispirazione dall'alto, dà a tutta la scena un senso di sorpresa e di attesa nello stesso tempo.

"Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza"
E la sorpresa non si fa attendere, perché Gesù, proprio durante la cena, compie dei gesti e dice delle parole che hanno sapore di assoluta novità: "Mentre mangiavano prese il pane e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: "Prendete, questo è il mio corpo". Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio"" (vv. 22-25).
L'ultima espressione è un'apertura al futuro: se l'Eucaristia è la celebrazione del mistero della morte del Signore, è anche l'annuncio della sua risurrezione, che lo introdurrà nel "regno" del Padre, dove celebrerà per sempre il banchetto della felicità messianica. È allora che Cristo berrà il vino "nuovo", segno della gioia e del trionfo.
Con tutto ciò rimane vero che l'Eucaristia è soprattutto la celebrazione della morte del Signore.
È quanto mette in evidenza soprattutto la formula di benedizione del calice: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, versato per molti" (v. 24). Come abbiamo già detto, la formula richiama la pattuizione dell'alleanza sinaitica, che si era celebrata con l'offerta di vittime (v. 5). "Versare il sangue", poi, richiama ovviamente un gesto di morte, collegato però sempre ad un rito sacrificale.
Ma anche l'offerta del pane, che prima viene "spezzato", allude alla morte di Cristo, come del resto mette in evidenza san Luca, il quale riporta la formula in questi termini: "Questo è il mio corpo, che è dato (in greco didómenon) per voi" (22,19).
Le parole, con cui Gesù istituisce l'Eucaristia, tendono perciò a riprodurre quella situazione di morte che si verificò il venerdì santo, quando il suo corpo venne lacerato e il suo sangue completamente versato. Tutto questo però in dimensione "sacrificale": è lui, che si offre per noi al Padre in una oblazione di amore, pur nel tormento e nella sofferenza più dilacerante.
L'Eucaristia, perciò, non è solo una "presenza", ma anche e soprattutto un "sacrificio": quello stesso che Gesù consumò sul Calvario e che oggi misteriosamente riattualizza nel sacramento, avvolgendo tutti noi con il suo amore.

"Cristo con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario"
Un rimando all'Eucaristia come "sacrificio" che sancisce la nuova "alleanza" nel "sangue" l'abbiamo anche nella seconda lettura, che, mettendo a confronto il sacerdozio di Cristo con quello dell'Antico Testamento, fa vedere l'infinita superiorità del primo sul secondo perché, mentre il sommo sacerdote ebraico offriva vittime materiali, Cristo ha offerto, "una volta per sempre", se stesso.
L'autore della lettera agli Ebrei ha qui presente la cerimonia del grande giorno dell'"espiazione", quando il sommo sacerdote entrava nel "santo dei santi", cioè nella parte più segreta del tempio, aspergendo del sangue della vittima il "propiziatorio", quasi a significare l'universale riconciliazione del popolo di Israele con Dio. Invece, "Cristo, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna..." (9,13-15).
Cristo dunque, "entra" una volta per sempre nel "santuario" celeste, in virtù del proprio "sangue", che ci "purifica" non dalle immondezze della carne, ma da quelle più profonde della nostra "coscienza" (vv. 13-14). In tal modo ci riscatta per sempre dal male e noi possiamo già entrare con lui nella "eredità eterna" (v. 15), che egli ci ha garantito facendosi "mediatore" della "nuova alleanza" nel suo sangue.
L'autore della lettera agli Ebrei non parla qui dell'Eucaristia; ma in realtà quello che egli dice si attua, oggi, per tutti noi nel mistero dell'Eucaristia. Essa non è solo il "memoriale" della passione, ma anche il preannuncio e l'anticipazione della Pasqua eterna.
È "l'eredità" futura che già possediamo, per la fede, nei segni sacramentali.

          CIPRIANI SETTIMO

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