CIPRIANI SETTIMO SDB"Io sono il pane vivo disceso dal cielo"

9 agosto 2015 | 19a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
"Io sono il pane vivo disceso dal cielo"
Nel commento della Domenica scorsa abbiamo fatto osservare come "prioritaria", in tutto il discorso eucaristico, sia la "fede": essa soltanto permette di accedere al mistero di Cristo che, già in quanto "inviato" del Padre, è "il pane della vita" (Gv 6,35) che sfama tutti i bisogni e i desideri degli uomini.
Però Gesù è "il pane della vita" anche in un senso più "realistico",
in quanto cioè darà veramente la sua "carne" a mangiare e il suo "sangue" a bere (Gv 6,53-54) agli uomini, per esprimere in tal modo il massimo di "donazione" e di "comunione" nello stesso tempo: quasi una forma di "espropriazione" che egli compie in se stesso, per essere tutto degli altri!
È a questo punto che la sfida lanciata alla fede appare anche più provocante, e addirittura insostenibile: è quanto il brano evangelico odierno (Gv 6,41-51) e ancor più quello seguente (vv. 52-58) ci fanno toccare con mano. Il punto di rottura sarà rappresentato dal rifiuto a credere perfino di "molti" dei "discepoli" del Signore: "Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?" (Gv 6,60).
Si capisce perciò sempre meglio perché Giovanni abbia impiantato questa lunga pericope del suo Vangelo (moltiplicazione dei pani, il cammino di Gesù sulle acque, il discorso nella sinagoga di Cafarnao: 6,1-66) sopra una esplicita richiesta e motivazione di "fede".

"Intanto i Giudei mormoravano di lui..."
Fede, di cui sono incapaci i Giudei che hanno fin qui seguito il discorso di Gesù: essi, infatti, tentano a tutti i costi di inquadrare le sue parole negli schemi della loro "razionalità" e della loro capacità di conoscenza e di esperienza.
"Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: "Io sono il pane disceso dal cielo". E dicevano: "Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?"" (vv. 41-42). Quello che impedisce ai Giudei di credere alle parole di Gesù è la loro pretesa di "conoscere" tutto di lui: padre, madre, condizione sociale! Tutto ciò che va al di là di questa loro esperienza, non può essere vero: "Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?" (v. 42).
Proprio perché si fidano ciecamente di se stessi, diffidano di Gesù! Con tale stato d'animo non ricordano più neppure il miracolo della moltiplicazione dei pani, che pur avevano toccato con mano, e che doveva se non altro far nascere in loro il "dubbio" della presenza del divino in lui. Non ricordano più neppure di averlo proclamato come "il profeta che deve venire nel mondo!" (v. 14). Ma ad un "profeta" di Dio non si può non dar credito! Come va che adesso non accettano più per vere le sue parole? È davvero un "gran guazzabuglio" questo strano cuore dell'uomo (A. Manzoni)!
Però una spiegazione c'è; e non è tanto di carattere psicologico quanto di carattere religioso, ed attinge le soglie del mistero. "Gesù rispose: "Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me..."" (vv. 43-47).

"E tutti saranno ammaestrati da Dio"
Siamo dunque davanti al "misterioso" agire e parlare di Dio, che non sempre trova ascolto nel cuore dell'uomo: e Dio soltanto può svelare a noi che Gesù è il suo Figlio, che egli "ha mandato" dal cielo come "il pane della vita". Il problema è di "ascoltarlo" con umiltà e docilità. Perché non si tratta di una specie di discriminazione, che egli farebbe in mezzo agli uomini: alcuni li "attirerebbe", e altri no! La fede non è un "dono" capriccioso di Dio: egli la offre a tutti, come afferma qui esplicitamente Gesù nella citazione ripresa da Isaia (54,13) e da Geremia (31,33-34): "E tutti saranno ammaestrati da Dio" (v. 45).
Però non "tutti" si lasciano "ammaestrare"! L'esempio concreto è costituito da quella folla immensa, alla quale egli annuncia il mistero d'amore di Dio e che essa è incapace di accettare, nonostante che davanti a loro ci sia Qualcuno che il volto di Dio lo ha "visto", e perciò può testimoniarlo al mondo: "Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre" (v. 46).
A questo punto è evidente che il "mistero" è soprattutto nel cuore dell'uomo: tocca a lui "udire" e "imparare", e allora sarà capace di accettare Cristo come il Figlio di Dio che si dona e ci salva; oppure soltanto "udire", come faceva quella gente che in quel momento ascoltava il Maestro, senza però "imparare", anzi contestando; e allora Gesù rimarrà niente altro che "il figlio di Giuseppe" (v. 42), come difatti risulta dalle apparenze, che delude le attese degli uomini, anche quelle semplicemente terrene.
È il dramma di chi "non può" credere, perché ha già un'altra fede: quella che si è costruito con la sua piccola intelligenza, o con il suo cuore chiuso e inaridito. È per questo che il "non aver fede", in un modo o in un altro, è sempre una colpa!
Come è palesemente una colpa, per l'evangelista, l'incapacità dei Giudei a credere alle parole di Gesù, che pur aveva dimostrato la sua potenza con il miracolo della moltiplicazione dei pani. Di fatti egli, per descriverci le loro rimostranze, adopera il verbo "mormorare" (gongyzein: vv. 42-43), che viene adoperato dalla versione greca dell'Antico Testamento per esprimere la ribellione degli Ebrei nel deserto contro Mosè ed Aronne per la mancanza di cibo e di acqua, nonostante i molteplici miracoli operati da Dio in loro favore. È la durezza di cuore, dunque, e la diffidenza verso Cristo che impedisce ai Giudei di credere in lui.
Però, così facendo, essi si precludono la strada della salvezza e marciano verso la loro rovina. Non accettando, infatti, il "dono" di Dio in Cristo, si collocano al di fuori del piano salvifico: "In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha la vita eterna" (v. 47).

"Io sono il pane della vita"
Ormai che il rapporto con Cristo è ridotto alla essenzialità della fede, egli può fare le dichiarazioni più sconcertanti sul mistero "eucaristico" che prolunga, in un certo senso, la sua capacità di donarsi senza fine agli uomini: "Io sono il pane della vita... Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (vv. 48-51).
È soprattutto davanti a queste parole, che anche a noi sembrano troppo belle per essere vere, che si verifica quello che Gesù ha detto poco sopra: "Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato" (v. 44; cf v. 65). Se anche a noi il Padre non apre il cuore ad intendere, rischiamo di rimanere freddi e indifferenti davanti alla soglia del mistero: perché, in fin dei conti, accettare il mistero e non lasciarsene infiammare e trasformare, è forse cosa peggiore che respingerlo!
Come si vede, qui Gesù non parla più per simboli, ma in maniera chiara ed aperta. Dopo aver messo al sicuro che è lui, in quanto Figlio di Dio, "il pane della vita" (v. 35) che bisogna accettare e assimilare mediante la fede (vv. 35-47), egli va oltre e rivela un modo anche più concreto di offrirsi agli uomini: sarà proprio lui, il Figlio di Dio "fatto carne", che si offrirà "in cibo" di vita a quelli che credono in lui.
L'insistenza sul verbo "mangiare" (vv. 49.50.51), il confronto con la manducazione della manna nel deserto, già dicono il "realismo" delle parole di Gesù. La frase conclusiva, poi, non lascia alcun dubbio sul senso "reale", e non più soltanto simbolico, delle sue affermazioni: "E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (v. 51). È davanti ad essa infatti che scoppierà la ribellione aperta dei Giudei: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" (v. 52).
C'è una progressione martellante nelle ultime affermazioni di Gesù: "Io sono il pane della vita... Io sono il pane vivo... il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo".
Il pane dà sempre "vita": perciò la prima espressione, fra le tre appena citate, non è tanto sconcertante. La seconda invece lo è di più, nella misura in cui il pane viene considerato non tanto datore di vita, quanto "vivente lui stesso": "Io sono il pane vivo", cioè che ha la fonte della vita in se stesso e perciò può comunicarla anche agli altri. Dio soltanto è il "vivente", secondo la prospettiva biblica! La terza espressione poi raggiunge i limiti dell'incredibile, perché identifica il "pane", che Gesù ha promesso di dare agli uomini, con la sua stessa "carne", cioè con il suo corpo, o meglio, il suo essere umano che era lì sotto gli occhi attoniti dei suoi ascoltatori: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (v. 51).

"Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo"
Non c'è, pertanto, alcun dubbio: Gesù promette di dare in un futuro non molto lontano ("darò") il suo stesso corpo in cibo a coloro che avranno il "coraggio" di credere alle sue parole. Il "modo" di tutto questo è secondario: quello che importa di più, almeno per ora, è il "fatto".
Ma esaminiamo per un attimo le ultime parole sopra citate. Quando Gesù parla della sua "carne", la intende indubbiamente nel senso che san Giovanni dà a questo termine nel suo Vangelo: sarx (= carne) sta a significare l'uomo concreto, nella sua fragilità e deperibilità; esso evoca tutta la distanza fra l'uomo e Dio, che però in Gesù viene superata mediante il mistero dell'incarnazione: "E il Verbo si è fatto carne" (Gv 1,14). Una "carne", dunque, quella di Gesù, fragile e soggetta al divenire della storia, ma disposta e congiunta al divino: ecco quello che egli offrirà agli uomini perché ne mangino e vivano.
Il mistero dell'incarnazione, dunque, si continua nell'Eucaristia: e questo è già qualcosa di enorme!
Ma c'è ancora dell'altro: l'espressione "la mia carne per la vita del mondo" significa ovviamente "data, consegnata per la vita del mondo", come di fatto precisano diversi manoscritti (recensione antiochena, codice di Koridethi, ecc.). Nella sua concisione essa richiama la formula di consacrazione eucaristica: "Questo è il mio corpo che è per voi" (1 Cor 11,24; cf Lc 22,19). C'è perciò un esplicito rimando alla morte di croce, in cui Gesù offrirà se stesso per la salvezza di "molti": san Giovanni toglie ogni dubbio sul significato di quei "molti", e parla della "vita del mondo", cioè di "tutti". L'Eucaristia non continua soltanto il mistero dell'incarnazione, ma anche quello della passione, che è il vertice più alto della prima: Gesù non è mai stato "carne" umana tanto fragile come quando è spirato fra le atroci sofferenze della croce!
In ogni modo, Giovanni ci tiene ad affermare che la "carne" di Gesù data alla morte è per dare la "vita" agli uomini. Perciò l'Eucaristia è soprattutto un mistero di vita, anche se nasce dalla morte di Cristo: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno" (v. 15).
È a questa "vita", già "eterna" fin dal presente, che Cristo ci introduce mediante il dono dell'Eucaristia: però è una vita che si alimenta "mangiando" continuamente del corpo del Signore.

"Con la forza di quel cibo Elia camminò per quaranta giorni..."
Questo riferimento all'Eucaristia come "cibo" è allusivamente contenuto anche nella prima lettura, che ci descrive un momento particolarmente drammatico della vita di Elia.
Dopo che egli aveva fatto scannare i 450 profeti di Baal (1 Re 18,40), l'empia regina Gezabele attenta furiosamente alla sua vita. Il profeta, "impaurito", fugge, dirigendosi verso il sud. Quasi disperato per l'apparente insuccesso dei suoi sforzi per restaurare il puro jahvismo in Israele e a motivo delle insidie tesegli contro, domanda al Signore di morire: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri" (1 Re 19,4). E si addormentò sotto un ginepro, preso dalla inedia e dalla stanchezza.
Se non che l'angelo del Signore lo svegliò, invitandolo a mangiare: "Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi" (v. 6). Di nuovo l'angelo lo svegliò e gli disse: "Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino" (v. 7). Il profeta mangiò ancora e bevve, e "con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb" (v. 8). L'Oreb è un altro nome per designare il Sinai.
Elia ripercorre a ritroso il cammino di Mosè verso il Sinai, dove Dio si era rivelato al suo popolo e aveva fatto con esso la grande alleanza. Il suo viaggio, pertanto, è come un ritorno alle sorgenti, e per lui si rinnovano i prodigi del quarantennale viaggio degli Ebrei attraverso il deserto: il pane e l'acqua, simboli non solo della benevolenza premurosa di Dio, ma anche della sua potenza. L'incontro con Dio nel Sinai, così come l'ingresso nella terra promessa, dopo la lunga traversata del deserto, sono possibili soltanto "con la forza" che viene dal "cibo" che Dio prodigiosamente dona al suo popolo.
Per il cristiano si ripropone lo stesso itinerario: il suo viaggio verso Dio è possibile solo se egli si nutrirà del corpo e del sangue del Signore. Cosicché nel nostro cammino verso il cielo è Dio stesso che, nell'Eucaristia, ci sospinge, dandoci forza e nutrimento, verso di sé.
È la continuazione di quell'amore che egli ci ha manifestato in Cristo, che "ha dato se stesso per noi offrendoci a Dio in sacrificio di soave odore", come ci ricorda la seconda lettura (Ef 5,2).

"Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio"
In questa ultima parte della lettera agli Efesini san Paolo descrive la "vita nuova" che il cristiano deve ormai vivere, associato com'è al mistero stesso di Cristo.
I segni manifestativi di questa vita "rinnovata" sono, in sostanza, due: fedeltà allo "Spirito", che è soprattutto spirito di unità e perciò viene "rattristato" da qualsiasi discordia all'interno della Chiesa (Ef 4,30); carità vicendevole e perdonante, sull'esempio stesso di Cristo (v. 32).
"Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità... Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per voi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore" (Ef 4,30-5,2).
L'Eucaristia non solo ricorda, ma rinnova sempre da capo la immensa fiamma di amore con cui Cristo "ci ha amato", fino alla morte.

                      Da CIPRIANI SETTIMO SDB

Commenti

Post più popolari