Chiesa del Gesù Roma, "L’uomo ricco"

Sap 7, 7-11. Sal. 89, 12-13. 14-15. 16-17. Eb 4, 12-13. Mc 10, 17-30 (oppure breve 17-27).
Premessa. Gesù è sulla strada che lo porta a Gerusalemme e ha già annunciato ciò che lo aspetta. Presto si scontrerà con i poteri che lo condanneranno ed egli sarà senza alcuna difesa. Chi vuole seguirlo nel suo cammino deve convertirsi profondamente entrando in una dimensione diversa, cambiando modo di pensare e rinunciando a quelle
sicurezze che istintivamente l’uomo ricerca e accumula e che hanno nella ricchezza il loro simbolo compiuto.

L’episodio dell’incontro di Gesù con l’uomo ricco è come un simbolo dell’incontro con quella parte di Israele che, in nome della salvezza per mezzo della legge, rifiuterà la radicalità, che è la via del regno proposto da Gesù e lo condanneranno.

Seguirà la lode per l’Israele fedele, quello formato dai piccoli e dai poveri, cioè da coloro che non possono vantare l’osservanza della legge e la sicurezza che da essa promana.

Il testo è diviso in tre parti. Nella prima c’è l’episodio dell’uomo ricco; nella seconda si trova il commento di Gesù sull’esito infelice dell’incontro e la reazione sbigottita degli apostoli; nella terza vi è l’insegnamento di Gesù sul pericolo della ricchezza e sulle esigenze della sequela.

Prima parte. L’uomo ricco viene presentato in un atteggiamento simile a quello dell’indemoniato geraseno («Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse», Mc 5,6-7); là l’incontro aveva l’aspetto della sfida; qui, nonostante le apparenze, ci si trova dinanzi a una situazione simile. L’indemoniato geraseno chiama Gesù per nome, nel tentativo di affermare il proprio potere su di lui; qui il personaggio che si rivolge a Gesù lo interpella con un appellativo che vorrebbe indicare stima, ma che rappresenta comunque la pretesa di conoscere il Maestro. Lo chiama infatti «Maestro buono».

Gesù risponde in due tempi: prima correggere l’uomo ricco riguardo all’appellativo con cui gli si è rivolto, rimandando a Dio la lode per la bontà; richiamandosi al Salmo 136/5,1, che dice: «Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia», Gesù conclude: «Nessuno è buono, se non Dio solo». Poi rimanda all’Alleanza: chi vive secondo la Sapienza di Dio vive della sua stessa vita, e ricorda i comandamenti della seconda tavola. In sintesi, Gesù richiama la promessa di Dio al popolo fedele all’alleanza.

Due testi in particolare possono illustrare la situazione; il primo è del Libro del Levitico e dice: «1Il Signore disse ancora a Mosè: 2Parla agli Israeliti e riferisci loro. Io sono il Signore, vostro Dio. 3Non farete come si fa nel paese d’Egitto dove avete abitato, né farete come si fa nel paese di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi. 4Metterete in pratica le mie prescrizioni e osserverete le mie leggi, seguendole. Io sono il Signore, vostro Dio. 5Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali, chiunque le metterà in pratica, vivrà. Io sono il Signore» (Lv 18,1-5). Il secondo, preso dal Deuteronomio, recita: «15Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. 16Oggi, perciò, io ti comando di amare il Signore, tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore, tuo Dio, ti benedica nella terra in cui tu stai per entrare per prenderne possesso. 17Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi e a servirli, 18oggi io vi dichiaro che certo perirete, che non avrete vita lunga nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso, attraversando il Giordano.» (Dt 30,15-18). Dunque, «Chiunque le metterà in pratica [le leggi del Signore] vivrà».

La vita di cui si parla, nel suo senso immediato, è la longevità: i fedeli all’Alleanza sarebbero stati graditi a Dio, il quale avrebbe premiato i suoi fedeli con una vita lunga, una discendenza numerosa e l’abbondanza di beni. Qui la domanda è sulla vita eterna, che non va pensata in opposizione alla vita mortale; ma va intesa piuttosto come richiesta di vivere una vita diversa: la vita di Dio, appunto. Non è questione, dunque, di durata (eterna in opposizione a limitata), ma di qualità, di essenza. Pertanto la risposta di Gesù rimanda al documento dell’Alleanza: chi mette in pratica la Legge, che è espressione della Sapienza divina, vive la vita di Dio.

Dalla risposta dell’uomo ricco si comprende che egli conosceva il mezzo per ottenere il suo scopo; e si può anche concludere che egli veramente già vive di vita eterna perché compie la volontà di Dio manifestata attraverso Mosè. Si potrebbe dire che l’uomo ricco è il modello del pio israelita giunto alla soglia del regno, ma incapace di varcarla perché incapace di concepire una vita come quella del Figlio: benedetta da Dio, ma povera e completamente abbandonata al Padre.

Accogliere l’invito di Gesù, per l’uomo ricco, significava entrare in una mentalità nuova il cui dato fondamentale sarebbe stato la rinuncia ai “diritti” maturati con una vita perfettamente osservante. Quest’uomo avrebbe dovuto passare dall’idea di una salvezza conquistata a quella di una salvezza ricevuta in dono. Se, dunque, egli voleva «fare» qualcosa per «avere» la vita eterna doveva mettere in pratica la legge; se invece voleva la perfezione, avrebbe dovuto spogliarsi della «giustizia» (cioè della santità e dal “diritto” ai beni) derivante dalla legge e aprirsi alla «giustizia» (=santità, comunione con Dio) derivante dalla fede, cioè a quella salvezza che viene dal seguire il Signore condividendo la sua vita povera e abbandonata all’amore del Padre. Perché la salvezza portata da Gesù a tutti non è frutto di una conquista, ma un dono. Può riceverla chi l’accoglie. Si capisce perciò che l’uomo ricco ha bisogno di una “conversione” radicale: dalla fiducia nelle proprie opere alla fiducia nella misericordia di Dio.

Gesù ama quest’uomo che fa la volontà di Dio e gli propone di abbandonare ciò che costituisce la fonte della sua sicurezza, cioè la consapevolezza di avere “meritato” la fortuna e il potere di cui dispone, e di salvare la propria vita mettendosi nelle mani di Dio.

Si può dire che il buon giudeo che si è avvicinato a Gesù ha compiuto tutto ciò che un uomo generoso e buono può fare; osservando la legge, egli ha compiuto il bene che la retta ragione dell’uomo onesto riconosce e apprezza, sicché, in nome della giustizia, può aspettarsi il premio riservato agli uomini “giusti”, cioè trovati perfetti nell’osservanza dell’alleanza. In altri termini, egli ha già fatto ciò che doveva per “avere” la vita di Dio. Ma vi è una via che supera l’antica ed è quella della gratuità. Non si pone in alternativa, ma come completamento di essa. Chi è “giusto” per l’osservanza della legge è, o almeno dovrebbe essere, pronto per mettersi sulla via di Gesù.

Quell’uomo ha osservato i comandamenti da sempre, dunque non è lontano dal regno di Dio e può compiere un passo decisivo; perciò Gesù glielo propone.

Prima di parlare vi è da parte di Gesù un’elezione: «fissatolo, lo amò». È un incontro di sguardi che apre a una conoscenza inattesa e sconvolgente: Gesù fa intuire all’uomo ricco quanto più prezioso di ogni ricchezza sia lo stare con lui, ma anche come sia esigente l’amore. In quello sguardo Gesù vede che l’uomo ricco è veramente un uomo desideroso di vivere presso Dio e gli si mostra con la sola ricchezza che dovrebbe essere desiderata dall’uomo: l’amore con il quale Dio ama ogni creatura. L’esperienza di essere amato tanto così avrebbe dovuto aprire il cuore all’uomo ricco e svincolarlo dalle ricchezze nelle quali egli cerca e trova le sicurezze per la propria vita.

«Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Gesù chiede a quest’uomo una conversione profonda che passa attraverso l’abbandono di tutto ciò che la sua educazione e la sua fede gli aveva insegnato su Dio stesso e sulla benedizione di stare con lui. Gesù gli propone di essere libero come gli uccelli del cielo e i gigli del campo; libero dalle sicurezze di cui la ricchezza è il simbolo. La perfezione desiderata ha un nuovo traguardo: non basterà più osservare i comandamenti; sarà necessario mettersi nella medesima condizione di Gesù, sulla via dell’obbedienza al Padre, come figli, mettendo in conto di perdere tutto, anche la vita, pur di vivere nella logica dell’amore di Dio per l’uomo. La vita eterna, cioè la vita di Dio, la si può vivere nella condivisione della vita e delle scelte di Gesù: egli mostra come la vita di Dio può essere tradotta in vita umana. La vita eterna comincia facendo propri i sentimenti e le scelte radicali di Gesù, che «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo» (cf Fil 2,6-7): la vita eterna è la vita di Gesù, che chiama tutti a condividerla; una vita che rinuncia ai privilegi della stessa «giustizia» secondo la Legge. A questo punto l’uomo ricco, quanto meno dei propri meriti, ha trovato quello che cercava e deve fare una scelta: tenersi quello che ha e continuare a vivere come ha fatto fino a quel momento o lasciare tutto e vivere come Gesù, cioè una vita più forte della morte.

Il racconto termina con un finale inatteso: l’uomo se ne andrà triste. È la figura dell’uomo giusto, che però non riesce a fare il passaggio al regno. E, se vorrà essere coerente con la sua scelta attuale, dovrà, alla fine, schierarsi con coloro che condanneranno Gesù come un bestemmiatore.

Seconda parte. La seconda parte del testo è costituita dal commento di Gesù riguardo alle ricchezze, che egli indica come l’ostacolo all’accoglienza del regno (cf Lc 8,7.14). La ricchezza infatti può facilmente catturare anche l’uomo buono, come appunto avviene nel caso presente. Non bisogna dimenticare, qui, la duplice valenza della ricchezza: segno della benedizione divina e sicurezza materiale. Il regno dei cieli è quel modo nuovo di vedere la vita e di vivere che nasce dal sentirsi figli e dal desiderio sincero di compiere in tutto la volontà del Padre, perciò esclude tutto quello che crea distanza, disuguaglianza e contesa, come appunto la ricchezza. Il regno dei cieli è qualcosa di radicalmente diverso da quello che l’Antico Testamento considera benedizione, come lunga vita, ricchezza, discendenza numerosa e onore presso gli uomini («Il regno di Dio … è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» Rm 14,17). Il regno dei cieli è riservato a coloro ai quali Dio fa la grazia di desiderare e di riconoscere il compimento della creazione nell’incarnazione del Figlio.

Il ricco del racconto «aveva molti beni» e gli impedirono apprezzare la stoltezza della croce, la straordinaria ricchezza della povertà del Figlio di Dio. Così preferì tornarsene a casa. In fondo avrebbe potuto seguitare ad essere un uomo buono, sicuro nell’obbediente alla legge e alle tradizioni. Gli bastava la «vita eterna» che avrebbe avuto presso Dio. Il gustarla già da ora condividendo la vita del Figlio completamente abbandonato al Padre non faceva per lui. Non c’è spazio per interpretazioni accomodanti: chi cerca il «di più», chi vuole entrare nel «regno» deve lasciare le ricchezze, perché Gesù ha detto che non si può servire a Dio e al denaro (cf Mt 6,24; Lc 16,13).

Terza parte. Il brano termina con la domanda di Pietro, che interpreta i sentimenti di coloro che hanno seguito il Signore sulla strada e, come lui, si sono trovati perseguitati e spogliati di quanto avevano. È la domanda della Chiesa sposa fedele, che, non senza timore, vive nel mondo e ne affronta quotidianamente le difficoltà senza alcuna risorsa.

Il commento di Gesù all’amara rinuncia dell’uomo ricco a seguirlo è forte e netto: la ricchezza è un impedimento all’ingresso nel regno di Dio. I discepoli restano sbigottiti al punto da domandarsi: «E chi mai si può salvare?»; perché la ricchezza si oppone al regno?

La ricchezza in se stessa non è un male: molti ricchi amministrano le loro risorse in modo generoso e accorto per il bene comune. In Israele la prosperità era ritenuta segno della benedizione di Dio. Ma ognuno poteva e può constatare che spesso, quando un uomo diventava ricco gli si induriva il cuore; le sue energie erano spese nel difendere le sue ricchezze. Non mancano le occasioni nelle quali il ricco imputa al povero la responsabilità della sua condizione, e talvolta arriva a disprezzarlo e condannarlo. La ricchezza, essendo fonte di potere, può produrre arroganza. Chi dispone di molta ricchezza crede di poter fare ciò che vuole, di comprare tutto e tutti. Nella malattia, a volte, il ricco può allungare di qualche giorno la sua vita attingendo alle risorse più sofisticate e costose della medicina. È certo però che con sé non porta nulla. La ricchezza, infine, testimonia contro se stessa, infatti non di rado è l’effetto di una ingiusta distribuzione delle risorse.

Nel racconto evangelico, le ricchezze legano e immobilizzano: chi ne è posseduto non può seguire Gesù; per amore del denaro si può giungere addirittura a tradirlo, come ha fatto Giuda. Eppure bisogna riconoscere che anche colui che non aspira a grande ricchezza, tuttavia apprezza la sicurezza che essa può offrire. L’uomo infatti tende a vincere l’ansia con l’accumulo di risorse.

Perciò la conversione dall’attaccamento alle ricchezze alla povertà con Cristo è una grazia.

Abbandonare le ricchezze richiama il cammino del Padre Abramo, che lasciò la terra sicura dei suoi padri per affrontare un viaggio incerto, verso una meta tutta da scoprire. Con la sola compagnia della fede.

La domanda di Pietro è diretta e riguarda la condizione dei discepoli. Ognuno di essi ha accolto l’invito di Gesù, il quale parlava di un regno di Dio «vicino» (cf Mc 1,15); la loro «conversione», intesa come abbandono delle ricchezze (poche o tante che fossero) è avvenuta in vista del regno di Dio. Ma come sarà fatto questo regno?

Ebbene non è un luogo e neppure un sistema sociale. È piuttosto la condizione nella quale ognuno sente gli altri come fratelli, alla pari, e si sente onorato di servire con le proprie risorse chi è nella necessità. Si potrebbe dire che il regno è vivere partecipando ai sentimenti di Dio verso le sue creature; S. Paolo li illustra bene nell’inno alla carità (Cf 1Cor 13,4-8).

La risposta che l’Evangelista pone sulle labbra di Gesù rimanda all’esperienza delle comunità cristiane disperse in un mondo non di rado ostile: comunione fraterna all’interno e persecuzione all’esterno. Chi aveva dovuto lasciare la casa a motivo della sua adesione al Signore, perché anche i familiari gli avevano voltato le spalle; quelli che erano stati costretti a migrare a motivo della persecuzione o del boicottaggio che aveva reso impossibile lavorare e vivere nella terra in cui erano nati e cresciuti, trovavano chi li accoglieva e dava loro ospitalità in città e luoghi spesso lontani dalla patria e sperimentavano la solidarietà e la sicurezza di una nuova “famiglia”, la carità della Chiesa, che viveva pellegrina tra i pagani: riceveva il centuplo di quanto aveva dovuto lasciare per mantenersi fedele al Vangelo. Questa esperienza concreta confermava nella fiducia, alimentava la speranza e sosteneva il cammino nel tempo verso il giorno senza tramonto.

Si può affermare allora che la comunità cristiana è investita di questa responsabilità verso ognuno: ogni credente deve poter trovare nei suoi fratelli di fede il centuplo promesso dal Signore. Alla fine sarà proprio nella comunione dei cuori che il credente potrà trovare la forza per abbandonare ogni ricchezza che i ladri potrebbero rubare e che la tignola potrebbe ridurre in polvere. Dio continuerà a compiere ciò che è impossibile agli uomini attraverso la comunione sincera e solidale dei credenti.

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