CIPRIANI SETTIMO SDB "Ma egli, rattristatosi, se ne andò poiché aveva molti beni"

11 ottobre2015 | 28a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
"Ma egli, rattristatosi, se ne andò poiché aveva molti beni"
C'è un messaggio molto esigente nelle parole del Vangelo odierno, che fece un'impressione raggelante sugli stessi apostoli, di cui per ben due volte si dice che rimasero "sbigottiti" (Mc 10,24.26). Davanti a quel messaggio fu
soprattutto il "giovane ricco" a rimanere costernato, tanto che "se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni" (v. 22): Gesù condiziona l'ingresso nel "regno" al più assoluto distacco da
tutto ciò che può costituire una qualsiasi garanzia o sicurezza umana, che normalmente viene vista nel possedimento dei beni di questo mondo.
Proprio per questo si fa appello allo spirito di "sapienza", che ci riveli il vero senso delle cose e ci insegni dove consista la "vera" ricchezza, che non è certamente nell'oro, nell'argento, o nei conti in banca che possiamo possedere.
È questo il senso dell'acclamazione al Vangelo che ci fa ripetere, applicandola a noi, la preghiera di Paolo per i cristiani di Efeso: "Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo ci conceda lo spirito di sapienza perché possiamo conoscere qual è la speranza della nostra chiamata" (Ef 1,17-18). La vera ricchezza è quella che "speriamo", nella gloria, alla quale il Signore ci chiama mediante il dono della fede, come ci dice anche più chiaramente Giovanni nell'antifona alla comunione: "Quando il Signore si sarà manifestato, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è" (1 Gv 3,2).
Per conquistare tale ricchezza potrà essere anche necessario sacrificare tutto il resto: è proprio qui che consiste la "sapienza del cuore", che invochiamo nel salmo responsoriale.
"Pregai e mi fu elargita la prudenza..."
Ed è precisamente questa "sapienza" che diventa la "vera" ricchezza, che Salomone preferisce a tutti i tesori di questo mondo e domanda al Signore nella prima lettura.
Il brano sembra essere una rilettura "sapienziale" della preghiera di Salomone al momento di iniziare il suo regno, nella quale egli chiedeva "un cuore docile" per rendere giustizia al suo popolo e saper "distinguere il bene dal male" (1 Re 3,9). Pur essendo messe in bocca al grande re, oggi sappiamo molto bene che le riflessioni sono dell'autore del libro, che scrive ad Alessandria d'Egitto nel II sec. a.C. e vuole ammonire i suoi confratelli giudei a non lasciarsi sedurre dalla falsa "sapienza" dei Greci, che consideravano somma felicità la potenza, la ricchezza, il bello, la salute fisica e i piaceri della vita.
"Pregai e mi fa elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto... L'amai più della salute e della bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta lo splendore che ne promana..." (Sap 7,7-8.10-11).
La ricchezza vera, dunque, non è possedere i tesori di questo mondo, ma la "sapienza", che ce ne fa scoprire la fatuità e addirittura i rischi nella ristrettezza del cuore e nello spirito di cupidigia insaziabile e di avarizia. Come si vede, è già un rovesciamento di valori, quello che viene qui operato, che sarà proseguito anche più implacabilmente nel brano del Vangelo e che è possibile solo nell'ottica della fede: perciò tale "sapienza" è un dono che può venire solo "dall'alto" e può essere impetrato nella preghiera. Lo abbiamo appena sentito: "Pregai e mi fu elargita la prudenza" (v. 7).

"Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?"
L'odierno Vangelo di Marco, in una forma anche più paradossale, ci fa vedere come la vera ricchezza consiste nel sapervi rinunciare e nell'avere il cuore staccato dai beni di questo mondo.
Esso consta di tre sezioni distinte, ma tutte convergenti sul tema del "distacco", come condizione indispensabile per "seguire Cristo". In questo senso il messaggio è rivolto a tutti i cristiani, e non soltanto a qualche anima eletta che, appunto per questo, avrebbe dei particolari meriti davanti a Dio.
Nella prima sezione si descrive l'episodio del cosiddetto "giovane ricco" il quale, "mentre Gesù usciva per mettersi in viaggio, gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?"... Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni" (Mc 10,17-22).
Quello che colpisce di più, in tutto questo episodio, è il contrasto tra l'iniziale disponibilità del giovane e la sua chiusura all'appello finale di Cristo: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri" (v. 21). Gesù stesso era rimasto incantato dalla semplicità e spontaneità con cui gli aveva detto di aver "osservato" da sempre (v. 20) i "comandamenti" appena ricordatigli. Infatti il testo sottolinea espressamente questo senso di connaturale "simpatia" verso di lui: "Allora, Gesù, fissatolo, lo amò" (v. 21).
Proprio per questo il quadro risulta più drammatico: se neppure chi è già sulla via della "salvezza", avendone già percorso delle tappe e sentendone anche il fascino e il desiderio, è capace di percorrerla fino in fondo con tutte le esigenze che essa propone, chi potrà mai raggiungerla? È da questo che nascerà la domanda sbigottita degli apostoli: "E chi mai si può salvare?" (v. 28). In questa situazione, intenzionalmente drammatizzata dall'evangelista, è più che evidente il rischio "mortale" della ricchezza: infatti il giovane, che pur aveva cominciato con così generosi propositi, non accettò l'invito di Gesù e "se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni" (v. 22). L'attaccamento ai "beni" materiali gli impedì di aderire fino in fondo all'unico vero "bene" che è Dio!

"Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri"
Forse proprio per questo Gesù all'inizio respinge anche per sé l'appellativo di "buono" (v. 18), per ricordare che "Dio solo è buono", e perciò bisogna essere pronti ad accettarne tutti gli inviti e le sollecitazioni, superando la suggestione e l'attrattiva di altri "beni", che diventano addirittura "rovinosi" se si antepongono a lui. L'osservanza degli altri "comandamenti", quali quelli qui ricordati da Gesù (il quarto, il quinto, il sesto, il settimo e l'ottavo), non salva, se non è vivificata e illuminata dal primo, che riconosce il primato assoluto e permanente di Dio: "Non avrai altro Dio fuori di me".
È in forza di questo "primato" che Gesù al giovane, a posto in tutto, chiede la rinuncia effettiva alle sue ricchezze per "seguire" lui soltanto, che in tal modo si pone come l'equivalente di Dio. E non è un "di più" quello che egli richiede, ma semplicemente la conseguenza di porre Dio al primo posto. Quell'amore che Gesù, "fissandolo", gli aveva offerto, costituiva già un diritto ad esigere una risposta al suo appello.

"Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!"
La scena che segue ci riporta il commento dolente e preoccupato di Gesù all'episodio, che diventa così un monito per la comunità dei suoi discepoli di tutti i tempi: ""Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!". I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: "Figlioli, com'è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio"..." (vv. 23-27).
Quello che impressiona di più in questo brano è l'accoratezza con cui Gesù mette in guardia dal pericolo delle ricchezze. Per ben due volte afferma che è molto "difficile" per chi ha ricchezze "entrare nel regno di Dio" (vv. 23.24). La seconda volta, poi, vi aggiunge un'immagine, che sembra volgere il difficile all'impossibile: "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio" (v. 25).
Tanto è forte l'immagine che più d'uno ha cercato di raddolcirla, sia proponendo una correzione del testo leggendovi "fune da marinaio" invece che "cammello", sia suggerendo che Gesù si sarebbe riferito a una porta piuttosto stretta di Gerusalemme, detta appunto "cruna d'ago", per la quale si entrava quando le porte più grandi erano chiuse. Pur essendo possibile questa ultima interpretazione, in realtà si tratta di una di quelle immagini paradossali che Gesù adopera spesso nel Vangelo (si pensi alla trave nell'occhio: Mt 7,3, ecc.) per facilitare la comprensione del suo messaggio: egli vuol davvero dire che è tanto "difficile" salvarsi, essendo attaccati alle ricchezze come quel giovane, che lo ha abbandonato, da essere "quasi" impossibile.

"E chi mai si può salvare?"
Di fatti, è in questo senso che interpretano la sua affermazione gli apostoli quando commentano fra di loro: "E chi mai si può salvare?" (v. 26).
E questo essi dicevano per un duplice motivo: primo, perché nella prospettiva più generale dell'Antico Testamento la ricchezza veniva considerata come una benedizione del cielo, mentre Gesù dice che è un grosso ostacolo per entrarvi; secondo, perché avevano sott'occhio la figura del giovane che dichiarava di aver osservato tutti i "comandamenti" e sembrava vicinissimo alla salvezza, mentre in realtà dopo il rifiuto dell'invito di Gesù se ne era talmente allontanato da apparire come perduto.
Gesù risponde alla domanda sbigottita degli apostoli confermando la difficoltà del salvarsi, ma non l'impossibilità: "Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio" (v. 27).
Questa ultima espressione si trova già nell'Antico Testamento e risuona sulla bocca dell'angelo che annuncia a Maria il mistero della incarnazione (Lc 1,37). Contrariamente a quanto pensavano gli apostoli, che dovevano forse legare la salvezza alle opere e più in particolare alla "osservanza" dei comandamenti, Gesù la lega esclusivamente all'onnipotenza e alla benevolenza di Dio: è per mera gratuità infatti che Sara avrà un figlio (Gn 18,14) e che Maria diventerà madre del Salvatore (Lc 1,37). Così è per mera gratuità che gli uomini avranno la forza di staccarsi dalle loro ricchezze e aderire all'unica "ricchezza" che è Dio: come è avvenuto per san Francesco, e prima ancora per gli stessi apostoli.

"Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito"
È quanto costata Pietro, forse anche con un certo compiacimento, in contrapposizione all'atteggiamento del giovane ricco: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (v. 28). A differenza che nel testo di Matteo (19,27), egli non chiede qui alcuna "ricompensa" per la rinuncia fatta: la "gioia" di aver compiuto un gesto di amore e di distacco è essa stessa la ricompensa più grande! Però è Gesù a parlare di "ricompensa", facendo nello stesso tempo vedere che essa è frutto della risposta alla grazia e come un suo sviluppo: non è l'uomo che può pretendere qualcosa davanti a Dio, ma è Dio che nell'uomo chiede qualcosa a se stesso.
"In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del Vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna" (vv. 29-30).
Come si vede, Gesù amplia qui il discorso, abbracciando qualsiasi rinuncia fatta per il "regno": non è soltanto alle ricchezze che bisogna rinunciare ma, se lui ce lo chiede, anche al padre, alla madre, ai fratelli, alle sorelle, ai figli, e anche alla "moglie", aggiunge Luca (18,29).
D'altra parte, egli vuol far capire ai suoi che non è la rinuncia per la rinuncia che vale: quella che conta è solo la rinuncia fatta "a causa mia e a causa del Vangelo" (v. 29). Cristo, e il Vangelo che lo annuncia, sono i valori più grandi: è perciò una conquista, un essere più pienamente se stessi il possederli, anche se ciò dovesse costare la perdita e la rinuncia ad altre cose o persone, pur care.
Questa esperienza è quella che più direttamente hanno fatto i Dodici e fanno gli apostoli di tutti i tempi: non essendo attaccati a nulla, neppure ad una propria famiglia, si trovano ad essere "fratelli" e "padri" di tutti. La ricompensa è già in questa esperienza di amore e di fraternità universale. La "vita eterna", che Cristo garantisce per il futuro (v. 30), non farà che coronare questa gioia di sentirsi "arricchiti" fin dal presente di tutta la ricchezza di Cristo e del suo amore.
Perché il quadro non risultasse però troppo idilliaco, Marco ricorda anche "le persecuzioni" (v. 30), che accompagnano il cristiano che avrà rinunciato a tutto per seguire Cristo: anch'esse sono un dono della sua benevolenza, che aumenteranno il peso di gloria e di felicità del credente.
Come si vede, la paradossalità del Vangelo non finisce di stupirci: perfino l'ostilità contro di noi e le sofferenze per il "regno" sono un segno dell'amore di Dio ed una forma di "ricompensa" alla nostra fedeltà!

"La parola di Dio è viva, efficace..."
Saremmo tentati di non credere a queste cose, se non fossero parola di Dio! Ma appunto perché sono "parola di Dio", siamo sicuri che si realizzeranno.
È quanto ci dice la seconda lettura, in cui l'autore della lettera agli Ebrei esorta i cristiani a farsi docili ascoltatori della parola, perché essa ha il potere di realizzare quanto promette. Infatti, "la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore" (Eb 4,12).
Essa "giudica" dunque le ambiguità e la falsità della nostra vita, le nostre titubanze e le nostre paure davanti agli impegni che la "sequela" di Cristo esige dai suoi discepoli. È "sapienza" del cuore lasciarsi "scrutare" fino in fondo da quella parola, davanti alla quale "tutto è nudo e scoperto" (v. 13), per vedere se siamo davvero distaccati dalle cose, da noi stessi e perfino dalle persone che più amiamo, per fare spazio soltanto al "regno" di Dio.
"Essere povero non è interessante: tutti i poveri sono di questo parere. Ciò che è interessante è possedere il regno, ma solo i poveri lo possiedono. Non pensate che la gioia consista nel passare i nostri giorni a vuotare le nostre mani, la nostra testa, i nostri cuori. La nostra gioia sta nel far posto nelle nostre mani, nelle nostre teste, nei nostri cuori per il regno dei cieli che ci passa accanto. Poiché è cosa inaudita saperlo così vicino, sapere che Dio è qui vicino a noi, è prodigioso sapere che il suo amore è possibile in noi e su di noi, e non aprirgli questa porta unica e semplice, della povertà di spirito" (M. Delbrêl).

        Da CIPRIANI S

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