DON Giorgio Scatto"Il criterio dell’autorità, nella Chiesa, è il vantaggio che ne ricavano gli altri "

29° Domenica del Tempo Ordinario (anno B)
Letture: Is 53,10-11; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45
MONASTERO MARANGO CAORLE (VE)
1)«Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».

«Voi non sapete quello che chiedete».
La domanda, alquanto presuntuosa, dei due figli di Zebedeo rivela qual è spesso il movente della nostra preghiera: noi ci rivolgiamo a Dio per ottenere qualcosa. Lo vogliamo. Sarebbe più importante, invece, imparare a fidarci di ciò che lui ci chiederà, più di quello che possiamo pretendere noi da lui. Il problema principale della preghiera sta nel sapere cosa chiedere. Leggiamo infatti nel vangelo di Luca: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». Il Signore non mortifica il nostro desiderio, ma lo educa e lo purifica, consegnandolo alla totalità dell’amore.

«Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
I due discepoli vivono dentro un orizzonte ristretto, non ancora abitato dagli ampi spazi dello Spirito. Rivendicano i primi posti. Sperano in una rendita di posizione. Desiderano far carriera, sotto la protezione del loro Maestro. Gesù non li umilia, ma ribadisce un elemento fondamentale della sua pedagogia: pone le condizioni per accedere alla gloria, chiarisce qual è la via per arrivarci. Tali condizioni vengono espresse con due immagini: il calice e il battesimo.
Il calice poteva essere, raramente, la coppa della gioia che il padrone di casa porgeva all’ospite come segno di accoglienza, o la “coppa della consolazione” che, nei pasti funerari, veniva offerta ai membri della famiglia del defunto, o ancora la “coppa della salvezza”, “il calice della benedizione”. Ma più frequentemente era il calice amaro della sofferenza. “Bere il calice” – come in questo caso – significa partecipare ad una specie di giudizio di Dio sull’infedeltà del popolo. E’ condividere e fare proprio il dolore di Dio per il peccato, prendendone su di sé tutta l’amarezza e il disgusto. La metafora del battesimo evoca, letteralmente, lo sprofondare nell’acqua della sofferenza più atroce, fino alla morte. E’ il naufragio della speranza di ogni riuscita mondana. Il battesimo di Gesù nelle acque del Giordano aveva inaugurato il suo ministero. Era un gesto che voleva esprimere la sua piena solidarietà con i peccatori. Ma era soltanto un simbolo. Il vero battesimo si colloca al termine della sua missione: è la morte per i peccatori e con i peccatori.
I due discepoli dichiarano di essere in grado di condividere il destino di umiliazione, di sofferenza e di morte violenta di Gesù: «Lo possiamo!». C’è una certa sicurezza da parte dei discepoli, forse anche una eccessiva disinvoltura. Probabilmente l’evangelista vuole sottolineare il fatto che quando i discepoli dicono qualcosa di giusto, lo fanno loro malgrado e senza comprenderne il significato.

«Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Il verbo al passivo indica l’azione di Dio, che si svolge all’insegna della gratuità e della libertà. Il discepolo non può interpretare la sequela di Gesù come pretesa di una ricompensa speciale: il futuro non gli appartiene di diritto. Nemmeno l’offerta della sofferenza può avere alcun carattere meritorio, anche perché Dio non gradisce la sofferenza e non si compiace di essa. La prospettiva è un’altra: come Gesù si è messo fiduciosamente nelle mani del Padre, così anche chi lo segue deve assumere lo stesso atteggiamento. Nel Regno di Dio non ci sono posti prenotati: ciascuno è invitato ad operare nel presente, con totale dedizione, in gioiosa obbedienza al progetto del Padre.

«Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono ad indignarsi con Giacomo e Giovanni».
Probabilmente questi discepoli rimpiangono di non aver fatto la stessa richiesta prima di loro. Gesù, allora, approfitta di questo strascico polemico per chiarire il suo pensiero a riguardo della struttura che deve avere la sua comunità: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così».
Di fronte al triste spettacolo offerto dal potere, i discepoli hanno l’obbligo di fare l’opposto. Nella comunità cristiana ciascuno è il servitore di tutti.
Gesù presenta due modelli di quell’anti-potere che deve caratterizzare lo stile di una comunità che vuole vivere in obbedienza all’evangelo, strutturandosi in modo alternativo alla logica dei poteri di questo mondo: il servo (diaconos) e lo schiavo (dulos). Il primo termine esprime il servizio concreto; il secondo esprime la dipendenza. Il criterio dell’autorità, nella Chiesa, è il vantaggio che ne ricavano gli altri. «Chi è veramente senza ruolo e senza prestigio e veramente serve gli altri, questi esercita l’autorità». (R. Fabris).
«Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire, e dare la propria vita in riscatto per molti».
Gesù non è venuto per affermare un sistema politico alternativo ai sistemi che dominano il mondo; non si mette sullo stesso piano, in concorrenza con loro. Egli non esita a offrire se stesso quale ideale cui riferirsi. Riceverà da Dio “il potere, la gloria e il regno” (Dn 7,14) in quanto servo; riceverà la gloria in quanto capace di abbassamento, l’autorità regale in quanto disponibile al dono totale della sua vita. Così i discepoli.
Un’ultima, piccola, osservazione: alla destra e alla sinistra di Gesù, sono crocifissi altri due, che erano malfattori. Il vangelo rende vani i pensieri degli uomini.

Giorgio Scatto

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