CIPRIANI SETTIMO SDB,"Dunque tu sei re?"

22 novembre 2015 | 34a Domenica: Cristo Re - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
34a Domenica - Tempo Ordinario - B: CRISTO RE
* Dn 7,13-14 - Il suo potere è un potere eterno.
* Dal Salmo 92 - Rit.: Venga, Signore, il tuo regno di luce.
* Ap 1,5-8 - Il principe dei re della terra ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio.
* Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il suo Regno che viene. Alleluia.
* Gv 18,33b-37 - Tu lo dici; io sono re.
"Dunque tu sei re?"

Già l'antifona all'inizio della messa, ripresa dall'Apocalisse (5,12), ci introduce all'esatta comprensione della festa odierna: "L'Agnello immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza e sapienza e forza e onore".
È il canto di "miriadi di miriadi" e di "migliaia di migliaia" di angeli (v. 11) che, a nome di tutta la creazione, intendono celebrare Cristo quale autore della salvezza universale e nelle cui mani sono i destini del mondo. La sua "sovranità", però, nasce solo dalla morte di croce, in fin dei conti dalla sua debolezza: è l'immagine dell'"Agnello" che esprime tutto questo, e anche il fatto che egli appaia come "immolato".

Una "regalità" crocifissa
Perciò non si tratta per niente di una festa "trionfalistica", come il titolo di "re" dato a Cristo potrebbe anche far pensare, ma piuttosto di una confessione di fede nella universale potenza "salvante" di Cristo, che attinge tutta la sua forza dalla croce, che è segno più di sconfitta che di vittoria.
Però la sconfitta si è di fatto cambiata in vittoria, proprio perché l'amore non perde mai: e Cristo sulla croce ha manifestato il suo più grande amore verso gli uomini, dando loro testimonianza di come la vita ha un senso solo se donata per gli altri, infrangendo il cerchio delle chiusure, degli egoismi, delle contese che, di fatto, tendono sempre a colpire i più deboli. Egli è diventato re proprio in quanto vittima del "potere" ingiusto: perciò la sua "regalità" non può assumere la figura di una specie di "contropotere"! Essa è sinonimo di amore, di donazione, di servizio, di umiltà, di pacificazione, di ribellione ad ogni ingiustizia e prepotenza, di cui lui è stato la vittima più illustre.

"Tu sei il re dei Giudei?"
I testi biblici, comunque, molto ben armonizzati tra di loro, ci aiuteranno a comprendere meglio quanto veniamo dicendo.
E incominciamo proprio dal Vangelo di Giovanni (18,33-37), che ci descrive il drammatico incontro di Gesù con Pilato che, pur con tutta la punta amara di scetticismo di fronte alla "verità" (v. 38), rimane turbato dall'atteggiamento e dalle maestose parole di quel prigioniero, incriminato di sovversione politica e di aspirazione alla "regalità". Proprio in questa luce glielo devono aver presentato i Giudei, traducendo in termini politici le sue pretese messianiche. In realtà, è di qui che incomincia l'interrogatorio di Pilato: "Tu sei il re dei Giudei?" (v. 33).

"Il mio regno non è di questo mondo"
Al che Gesù replica, insinuando che la domanda gli possa essere stata suggerita proprio dai Giudei (v. 34). Pilato però risponde sdegnosamente: "Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?" (v. 35). Fa valere a questo punto il suo potere ("Ti hanno consegnato a me"), quasi per intimidire Gesù, che indirettamente risponde solo ora alla domanda iniziale: "Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei" (v. 36).
Se parla di un "suo" regno, vuol dire che egli è davvero "re"! Per non far nascere, però, troppe perplessità nel procuratore romano, Gesù precisa subito la natura del suo "regno" con due formule, che di fatto aprono e chiudono la sua risposta: "Il mio regno non è di questo mondo... il mio regno non è di quaggiù". Egli esclude dunque che il suo "regno" possa identificarsi con qualsiasi organizzazione o struttura politica, che disponga di mezzi economici o di strumenti di aggressione o di difesa, come potrebbe essere, ad esempio, un esercito: infatti, nessuno è sceso a "combattere" per difenderlo e impedire che fosse "consegnato" ai Giudei o a Pilato (v. 36): perciò egli può star tranquillo!
Però ancora non emerge quale sia la configurazione vera del suo "regno": ha soltanto escluso che sia una realtà politica, che possa eventualmente entrare in conflitto o in competizione con quella rappresentata in quel momento dal procuratore romano. Le affermazioni più esplicite le farà, invece, alla ulteriore domanda di Pilato che incalza: "Dunque, tu sei re?" (v. 37).

"Per questo sono nato: per rendere testimonianza alla verità"
È a questo punto che egli, ribadendo la sua regalità, ne descrive anche la natura del tutto spirituale e trascendente: "Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce" (v. 37). A prima vista sembrerebbe che la risposta non colpisca il problema: che c'entra la "verità" con il "potere", che la regalità rappresenta ed esprime? Non è anzi la "verità" il nemico principale di quelli che esercitano il potere? Almeno allora le cose andavano così: e purtroppo non soltanto allora!
Gesù afferma qui un concetto nuovo di "regalità", che egli è venuto a proporre agli uomini e che è ritagliato dalla sua vita, così come si è svolta fin qui e soprattutto come si svolgerà in conseguenza di questo drammatico incontro con il "potere", rappresentato da Pilato e dai Giudei, che non accetta di venir controllato dalla "coscienza" degli uomini liberi.
Egli è venuto "per rendere testimonianza alla verità" (v. 37): questa è la "missione" che il Padre gli ha affidato e che egli non può in alcuna maniera tradire, anche a costo della vita. In questa "fedeltà" alla sua missione sta la sua "regalità": né lusinghe, né minacce, né calcoli d'interesse lo sottrarranno al suo compito. Egli è veramente, in maniera radicale, "dominatore" di se stesso e degli eventi; non però come sfida altezzosa verso gli altri, ma come fedeltà sovranamente libera al Padre che lo ha "mandato".

"La verità vi farà liberi"
D'altra parte, sappiamo molto bene che per Giovanni la "verità" non è né un concetto, né un insieme di concetti che esprimono la realtà oggettiva, come più comunemente si pensa, quanto la "rivelazione" dell'amore di Dio in Cristo, che perciò può presentare se stesso come la "verità" assoluta (14,6). Si entra nel disegno salvante di Dio, che si rivela in Cristo, soltanto accettandolo come l'inviato del Padre e ascoltando le sue parole: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (8,31).
La "verità" rende "liberi" perché ci apre al disegno di Dio e ci fa vedere che tutti gli uomini sono anch'essi una piccola particella della "verità" del Padre e perciò degni di essere amati, e non tiranneggiati, come fanno invece molte volte i re della terra.
A questo punto si capisce facilmente la forza dell'espressione di Gesù: "Per questo io sono nato... per rendere testimonianza alla verità" (v. 37). Se tutta la sua vita è stata una testimonianza alla "verità", lo è soprattutto in questo confronto davanti alle autorità romane e giudaiche, che volevano che egli rinnegasse o ritirasse le sue pretese "messianiche"; e lo sarà specialmente nell'accettazione serena della sua condanna a morte.

"Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce"
Gesù però non vuol essere "solo" in questa testimonianza alla verità, e perciò afferma: "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce" (v. 37). Anche Pilato, dunque, può appartenere al suo regno, se lo vuole, se avrà il coraggio di resistere alle manovre raggiranti dei Giudei che vogliono strappargli a tutti i costi la condanna di un innocente. Il problema è di stare dalla parte della "verità" sempre, costi quello che costi, senza compromissioni o cedimenti.
Questa è la "regalità" che il Cristo propone e partecipa a tutti quel- li che credono nel suo nome: una regalità esaltante, ma anche crocifiggente!

"Ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio d'uomo"
Rimanendo in questa prospettiva, è chiaro che la prima lettura resta notevolmente al di sotto del clima creato dal testo del Vangelo di Giovanni. Infatti il brano di Daniele ci presenta la visione notturna del misterioso "figlio dell'uomo" più come quadro di potenza che di regalità "spirituale": "Guardando nelle visioni notturne, / ecco apparire, sulle nubi del cielo, / uno simile ad un figlio di uomo: / giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, / che gli diede potere, gloria e regno; / tutti i popoli, nazioni e lingue lo serviranno; / il suo potere è un potere eterno, / che non tramonta mai, e il suo regno è tale / che non sarà mai distrutto" (Dn 7,13-14).
È nota l'importanza di questo testo, che verrà applicato da Gesù a se stesso proprio davanti al sommo sacerdote che sta per condannarlo a morte. Il che significa che Gesù interpretava l'espressione "figlio dell'uomo" (in aramaico bar nashà) in senso "personale", anche se nel testo c'è la possibilità di interpretarlo in senso collettivo in quanto espressione del "popolo dei santi dell'Altissimo" (7,27). In realtà, non c'è contrapposizione fra le due interpretazioni, nel senso che il re messianico è sempre intimamente legato con il suo "popolo".
È bensì vero che qui la "regalità" è intesa in senso piuttosto esteriore; ma in realtà si tratta dell'affermazione della sovranità di Dio contro le potenze del male, rappresentate dalle quattro bestie (Dn 7,1-8), che verranno alla fine vinte dai "santi dell'Altissimo" dopo un periodo di sofferenza e di persecuzione. A questo punto riemerge la dimensione di un "regno", che è pur sempre frutto di sofferenza e di dolore.
In ogni modo, è evidente che solo il Nuovo Testamento ci dà la chiave per capire il senso vero di quella che sarà di fatto la "regalità" del "Figlio dell'uomo": una regalità, che stranamente nasce dal trono più antiregale che si potesse mai immaginare, cioè dalla croce, proprio come portava il "titulus" che vi si era voluto ironicamente scrivere: "Gesù Nazareno, il re dei Giudei" (Gv 19,19). Più che ironia, il titolo esprimeva ormai una paradossale realtà!

"Ha fatto di noi un regno di sacerdoti"
A questa realtà, ormai però "partecipata", ci richiama la seconda lettura, ripresa dal prologo dell'Apocalisse, in cui si celebra Cristo come "principe dei re della terra" (1,5), che verrà "sulle nubi" a giudicare le nazioni (v. 7), proprio come aveva predetto Daniele (7,13): "A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen" (vv. 5-6).
Anche più tardi nella visione della corte celeste, quando "l'Agnello immolato" si presenterà ad aprire i sette sigilli, i quattro esseri viventi e i ventiquattro seniori canteranno un inno per celebrare la sua regalità, fiorita dal suo sangue: "Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra" (5,9-10).
È chiaro dunque che per l'autore dell'Apocalisse la regalità di Cristo nasce dalla sua immolazione di croce, che è la più alta "testimonianza" da lui resa alla "verità" di Dio, di se stesso, del mondo.

La universale "regalità" dei cristiani
Più rilevante, però, in questi testi dell'Apocalisse, è la netta affermazione che tutti i redenti partecipano a questa sua regalità: "Ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre" (1,6). Il Concilio Vaticano II ha riscoperto questa dimensione di "regalità" di tutti i credenti e invita in modo particolare i laici ad esercitarla per fare entrare in tutte le strutture della società la "sovranità" dell'amore e della verità, che Cristo ha testimoniato con tutta la sua vita, soprattutto con la sua morte.
"Questa potestà egli (Cristo) l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi siano costituiti nella libertà regale e con l'abnegazione di sé e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato, anzi, servendo a Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al re, servire al quale è regnare. Il Signore infatti desidera dilatare il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici, il regno cioè della verità e della vita, il regno della santità e della grazia, il regno della giustizia, dell'amore e della pace; e in questo regno anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio. Certamente una grande promessa e un grande comandamento è dato ai discepoli: "Infatti tutto è vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio" (1 Cor 3,23)".

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