Don Giorgio Scatto "Per costruire la pace: un popolo che sa vivere sulla terra da straniero fra gli stranieri"

2° Domenica del Tempo Ordinario (anno C)
Letture: Is 62,1-5; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11
Per costruire la pace: un popolo che sa vivere sulla terra da straniero fra gli stranieri
1)Il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te».
In questo modo si esprime l’autore del terzo libro di Isaia, pensando all’Alleanza feconda tra Dio e il suo popolo. Si parla di delizia e di gioia. Gerusalemme, la città
del Signore, sarà oggetto di lode sulla terra: tutti parleranno di lei e i suoi abitanti saranno chiamati “Popolo santo”, “Redenti del Signore”. La città, che tante volte ha provato l’amarezza dell’esilio, sarà chiamata “Ricercata”, “Città non abbandonata”.
Mi sono chiesto tante volte come può un popolo particolare, che abita una terra minuscola, che vive egli pure in mezzo a contraddizioni e conflitti, essere definito “Popolo santo”, sentirsi unito al suo Dio come una sposa al suo sposo.
Perché Israele è chiamato a essere un popolo diverso da tutti gli altri?
Mi sono dato questa risposta: perché ha accettato di incarnare il messaggio dell’universalismo, attraverso una via particolarista che coincide con l’essere un popolo che obbedisce alla Torah, un popolo che ha ricevuto la missione di portare il monoteismo nel mondo. Monoteismo inteso, nelle sue conseguenze, come amore per il prossimo, per lo straniero; inteso anche come fratellanza universale, per arrivare infine al rifiuto dell’idolatria, concetto che contiene in sé già tutto l’umanesimo. Israele, se è arrivato ad avere una sua terra, dopo umilianti esili e deportazioni, è per comportarsi in maniera diversa dai goyim, dai popoli idolatri: non può arrivare al razzismo e alla discriminazione nei confronti dello straniero, di chi pratica fedi diverse, di chi incarna visioni del mondo diverse dalla propria.

Se l’Israele di ieri e di oggi persegue la strada del nazionalismo e della rivendicazione dei diritti di sangue sulla terra, rimuove un aspetto fondamentale dell’ebraismo: la terra promessa è del Signore! Purtroppo è questo che io ho visto nei miei ripetuti viaggi in Terra Santa. La relazione con la terra non ha nulla a che vedere con la “carne e il sangue”, con la mera occupazione di un territorio, perché il dono ha una dimensione spirituale. Dio dona la terra perché vi si pratichi un’economia di giustizia, l’universalismo e l’accoglienza dello straniero. Perché anche l’ebreo ci viva da straniero: se non lo fa, vanifica il senso più profondo del dono. Quella terra non è stata donata perché i suoi abitanti diventassero dei fanatici nazionalisti, ma anzi, proprio per dimostrare che l’unico modo per costruire la pace è essere un popolo che sa vivere sulla terra da straniero fra gli stranieri. E’ una consapevolezza che è passata ai cristiani. Essi non rivendicano una terra propria, con proprie leggi e una propria lingua: sono di casa in ogni patria e in ogni patria vivono come stranieri. Sono “stranieri con permesso di soggiorno”. Invece, in ogni epoca riemerge la vocazione ebraica per il vitello d’oro, per l’idolatria dell’ingiusta “sicurezza”che schiavizza un altro popolo, per l’ebbrezza della terra. Tentazione molto presente anche tra i cristiani, quando perseguono la via del potere e del privilegio. Sempre più ho visto, anche in Terra Santa, prevalere la mistica della forza, del denaro, del consumo. Così la terra promessa diventa un nuovo Egitto. Emergono nuovi piccoli faraoni e antiche schiavitù.

Essere chiamati “con un nome nuovo”, sentire di essere “terra sposata”, chiede impegni difficili che comportano la costante rimessa in questione delle certezze e delle sicurezze: la libertà, la giustizia, la condizione dello straniero, l’amore per il prossimo fino all’amore per il nemico. L’ebreo Moni Ovadia, attore di teatro, scrittore e musicista, afferma: «Se non si è ebrei per questi impegni, per cosa lo si è?». Lo stesso vale per i cristiani.
Sono sempre più convinto che una terra – se pur promessa – nella quale Dio diventa l’idolo che giustifica l’intolleranza e il dominio, sarà sempre più simile ad un deserto vuoto e privo di vita. E il popolo che la abita rimarrà sterile e infecondo. Senza uno sposo.

Il brano del Vangelo di Giovanni, posto all’inizio della sua narrazione, ritorna su questo tema fondamentale della terra , che è donata per la gioia nuziale dello sposo e della sposa.
C’è una festa, che è destinata a spegnersi nella tristezza, per mancanza di vino.
Ci sono delle grandi anfore, vuote, che dovevano servire per purificare nell’acqua esistenze rassegnate.
C’è la Madre, immagine di una Chiesa partecipe della vita e del dramma dell’umanità.
Una Madre che, con umile determinazione, ci chiede di fare “qualsiasi cosa” ci dica il Figlio.
Ci sono degli sposi, che rimangono come figure sbiadite nella cornice dell’evento.
Ci sono gli invitati, i servi, i discepoli, e colui che dirige il banchetto di nozze.
C’è il protagonista, il vero sposo, quello che è stato inviato perché la nostra terra non fosse più abbandonata e devastata. Gesù è lo sposo che gioisce per la sposa. E’ lui che cambia la nostra esistenza sulla terra, donando il vino buono dei tempi messianici, pigiato nell’ora della sua passione gloriosa.
Con lui inizia una festa di nozze che non finirà mai. Cambia il modo di abitare la terra e di stare nella compagnia degli uomini.

Mi domando perché, alla festa di nozze, spesso, abbiamo dimenticato lo Sposo.


Giorgio Scatto  

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