Don Giorgio Scatto"La memoria della ferita è annuncio della misericordia"

5° Domenica del Tempo Ordinario (anno C)
Letture: Is 6,1-8; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
La memoria della ferita è annuncio della misericordia
MONASTERO MARANGO, 
1 «Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore».

Conosciamo poco della vita di Isaia, il profeta di Gerusalemme. Nato intorno al 760 a.C., è cresciuto nella tradizione religiosa che condizionerà tutta la sua opera: Dio si è impegnato con la casa di Davide, che ha in Gerusalemme e nel tempio il suo centro. Riceve la vocazione profetica a venti anni, in una tremenda esperienza mistica che lo purifica e gli dà la chiarezza della missione da compiere.
C’è nel racconto di tale esperienza, un senso di pienezza: il lembo del mantello del Signore riempie il tempio; il fumo dell’incenso riempie l’aula sacra; tutta la terra è piena della gloria di Dio. C’è un traboccare di segni per affermare che colui che ha creato il cielo e la terra non può essere contenuto nella maestà di un tempio costruito dalle mani dell’uomo. Il Signore trascende il tempio, le istituzioni religiose, le Chiese, ogni pensiero e progetto dell’uomo. Per lui il mondo è solo lo sgabello per i suoi piedi: «Santo, Santo, Santo il Signore degli eserciti!».

«Ohimè, io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo ad un popolo dalle labbra impure io abito».
Colpisce come Isaia, posto di fronte al Signore, avvolto totalmente dalla maestà di Dio, prenda coscienza della sua radicale povertà. Sente il vuoto e la pochezza della sua persona. E’ solo un peccatore, e trema, come tremano gli stipiti del tempio. In questo momento, che poteva segnare una distanza incolmabile tra Dio e la creatura, avviene un rito di purificazione, che è nello stesso tempo anche un atto di consacrazione: un serafino, che tiene in mano un carbone ardente, gli tocca la bocca e dichiara che il suo peccato è espiato. Il profeta, che sarà la voce di Dio in mezzo al popolo, deve essere purificato con il fuoco proprio nella parola. La santità di Dio rende santo il suo inviato e lo rende capace di proferire le parole di Dio.

«Chi manderò e chi andrà per noi?». «Eccomi, manda me!»
Ora la visione della santità di Dio non intimorisce più il giovane Isaia, come nella visione iniziale. Egli si sente interpellato in prima persona. Risponde «eccomi», perché un altro lo ha reso capace. La missione è possibile solo perché il Santo ha guardato con misericordia la povertà del suo servitore. San Beda il Venerabile, commentando l’episodio evangelico della vocazione di Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: “Seguimi”». Avviene così per tutte le vocazioni. Lo sguardo di Dio sul profeta perde la fissità del momento e diventa un’azione che si sviluppa nel tempo. Siamo consacrati per la missione perché siamo stati guardati dalla misericordia di Dio.

Per noi la missione consiste soprattutto nell’annunciare la Pasqua di Gesù: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture». Papa Francesco ha detto recentemente ai vescovi italiani: «Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori». E accanto all’annuncio, l’amore preferenziale per i poveri, esso stesso puro Vangelo.

Il racconto evangelico che leggiamo all’inizio del capitolo quinto di Luca ha una fondamentale importanza per comprendere il tema della vocazione e della missione.
«Gesù stava in piedi presso il lago di Gennèsaret».
E’ una immagine che già profuma di Pasqua. Gesù appare come il Signore in mezzo ai suoi. La folla gli fa ressa intorno «per ascoltare la parola di Dio», cioè per ascoltare lui. Egli vede due barche ormeggiate alla riva e sale su una delle due «che era di Simone». E’ un particolare importante. Il nome di Simone viene ripetuto qui sei volte, per sottolineare che il cuore del racconto sta proprio nella relazione tra Gesù e questo pescatore del lago. Ogni vocazione nasce da questa relazione. Simone è tra coloro che ascoltano e Gesù dice a lui e a quelli che sono nella barca con lui: «Prendi il largo, e gettate le vostre reti per la pesca». La pesca nella notte è stata un insuccesso, ma Simone si fida della parola di quel rabbi che lui chiama ‘epistàta’, cioè conduttore, guida; getta la rete, prendendo una quantità enorme di pesci «e le loro reti quasi si rompevano».
A questo punto Simone scopre la maestà divina di Gesù e, di fronte a lui, riconosce di essere un peccatore: «Allontanati da me!». E’ la stessa reazione di Isaia che, avvolto nella nube della santità di Dio, grida: « Ohimè! Io sono perduto!».

«Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
Gesù non si lascia vincere dal nostro dubbio, dalla nostra fragilità, dal nostro peccato. Non dobbiamo aver paura di nulla, nemmeno del nostro passato più tragico e devastante. Nell’incontro con il Signore c’è per tutti un «d’ora in poi». E’ stato vero per Pietro, che ha rinnegato più volte colui che gli aveva dato tutta la sua amicizia. E’ vero ogni giorno per noi, che tradiamo più di Pietro. La nostra debolezza, accolta e sanata, diventa grazia per la missione. La memoria della ferita è annuncio della misericordia.

Pescare uomini vivi significa trarli fuori dal male della morte, dal non senso, dalla paura e dall’individualismo. Siamo sottratti a un destino di morte per mezzo di una rete – la comunità dei discepoli – gettata al largo nel nome del Signore Gesù. Ora inizia anche per noi un esigente e gioioso cammino di sequela: «Sulla tua parola getterò le reti».

Giorgio Scatto

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