S.E. mons. Benigno Papa, «Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata?»

QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA
Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11
13 Marzo 2016
1. Nel cammino di fede non possiamo comportarci da nostalgici evocatori del passato ma da persone
attente a saper cogliere nelle vicende quotidiane della vita, la novità che l’Amore di Dio suscita nella Chiesa e nel mondo. Questo suggerimento, che ci viene offerto dalla prima lettura, ci porta a dire che la “cosa nuova” fatta da Dio, la promessa di una via aperta nel deserto per far tornare gli esiliati a Gerusalemme è la persona di Gesù. Egli è la “Via” (Gv 14,6) data da Dio all’umanità perché essa pur vivendo nella desertificazione spirituale del mondo possa tornare a scoprire la tenerezza del Padre. Il brano evangelico precisa che nel rapporto con l’umanità peccatrice (l’adultera), Gesù manifesta di essere la via della misericordia. In lui l’Amore misericordioso del Padre si rende storicamente visibile. «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre» che, ricco di misericordia dopo aver rivelato il suo nome a Mosè come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (ES 34,6), non ha cessato di far conoscere in vari modi e in tanti momenti della storia la sua natura divina. Nella «pienezza del tempo» (Gal 4,4) quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio, nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi il suo amore. «Chi vede Lui, vede il Padre» (Gv 14,9). «Gesù di Nazareth con la sua Parola, con i suoi gesti, e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio» (Misericordiae Vultus 1). Una novità che è dono dell’amore di Dio è il Giubileo straordinario della misericordia che stiamo vivendo come comunità cristiana e singoli credenti. «Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tener fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segni della misericordia del Padre» (MV 3).
2. Il brano della prima lettura non è di immediata e facile comprensione, anzi a prima vista sembra scandaloso perché un credente sia ebreo che cristiano fa fatica ad accettare l’imperativo: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche» (Is 43,18). Papa Francesco nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium ci ha detto che «La memoria è una dimensione della fede che potremmo chiamare “deuteronomica” in analogia con la memoria di Israele» (EG 13) e nella Lumen Fidei aveva già affermato che il rapporto tra fede e memoria è cosi stretto che la fede apostolica giunge a noi attraverso il vangelo che la Chiesa con l’aiuto dello Spirito custodisce. La memoria dell’Esodo è fondativa di tutta l’etica cristiana (Es 21,1), perché ritenuta l’evento all’origine della storia del popolo di Dio e suprema manifestazione del suo amore per Israele. Il DeuteroIsaia dirà più tardi: «Ricordatevi dei fatti dei tempi antichi» (46,9), dal momento che dalla presa di coscienza dei benefici dell’Esodo scaturisce nella comunità la vera conversione: «Allora si ricordarono dei giorni antichi, di Mosè suo Servo» (Is 63,11).
Perché dunque il profeta dice di non ricordare più il passato? Perché c’è modo e modo di farlo. Nel brano della prima lettura, il passato è evocato come un tempo mitologico in cui Dio aveva operato eventi straordinari che ora sembra non compia più. L’evocazione del passato fa parte di un lamento che il popolo rivolge al Signore perché mentre nel primo esodo aveva annientato gli egiziani (Is 43,16-17), ora non agisce in favore degli Israeliti esiliati in Babilonia. Il senso della frase citata prima di Isaia (43,18) è questo: smettetela di lamentarvi guardando sconsolatamente al passato e rendetevi conto che siete in presenza di una nuova misericordiosa azione di Dio. Invece di guardare al passato con nostalgia, il profeta invita a un ricordo creativo che apre alla speranza, perché c’è già in atto, opera in modo silenzioso una cosa nuova: il rimpatrio degli esiliati a Gerusalemme considerato come un evento ormai impossibile dai connazionali. Ma la novità di cui parla Isaia è riferibile soltanto al ritorno degli Israeliti nella Città Santa? L’oracolo «Ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia» fa pensare all’attività creatrice di Dio che nella sua benevolenza verso il popolo di Israele e verso tutta l’umanità non si stanca di donarci dei segni forti del suo paterno amore. Colui che apre nel deserto una strada e che immette fiumi di acqua nella steppa è Colui che ci ha dato in Gesù “la Via” per ricondurci al Padre e nel dono dello Spirito Santo, l’acqua viva che ci disseta per l’eternità. Il rinnovamento antropologico e cosmologico annunciato dal profeta (Is 43,19-21) è profezia della “nuova creazione” (Gal 6,15) operata da Gesù con la sua morte e risurrezione della quale sono partecipi sia gli uomini (2Cor 5,17) sia il creato (Rm 8,20).
3. L’episodio della donna adultera collocato dalla liturgia della Chiesa nella quinta domenica di Quaresima ci mostra che Gesù si avvia alla sua passione con un atto di misericordia. Esso rivela la modalità con la quale egli intende risolvere il problema del peccato che è presente nell’umanità: prendendo su di sé, come Agnello di Dio, i peccati del mondo e offrendo con amore la sua vita perché, perdonati da Dio, gli uomini siano messi in condizione di non essere schiavi di esso e recuperare la vera libertà dei figli di Dio.
L’incontro di Gesù con l’adultera è provocato dagli scribi e dai farisei. Essi conducono la donna nel tempio dove Gesù si trovava a insegnare a tutto il popolo che andava da lui per ascoltarlo. Il motivo della iniziativa presa è quella di sapere da Gesù, riconosciuto come maestro, quale fosse la sua opinione in merito alla donna che gli era stata condotta, la quale era stata sorpresa in flagrante adulterio. La domanda degli scribi e dei farisei non era una domanda onesta: essi non avevano alcuna intenzione di essere illuminati da Gesù in merito a un fatto che per essi era chiaro e sul quale non c’era alcun dubbio. Il fatto era evidente: la donna era stata colta in flagrante adulterio e giustamente arrestata e la legge puniva casi del genere con la pena di morte (Dt 22,22-24). Chiedere a Gesù che cosa pensi a riguardo, significa tentare di metterlo in difficoltà o trovare motivo di accusarlo: se Gesù manifesta un’opinione contraria a quanto prescrive la legge, egli lede l’autorità di Mosè e quella di Dio, se invece si mostra favorevole a quanto dice la legge, smentisce chiaramente quanto da Lui affermato sulla misericordia di Dio e quanto da Lui fatto per i peccatori. Si tratta dunque di un tranello criminale ben congegnato su cui Gesù è invitato a esprimersi.
Ma Gesù tace. Questo suo silenzio rivela il suo profondo dolore per la presenza del peccato nel mondo e per la modalità sbagliata di applicare la giustizia nella vita della comunità. Il suo silenzio è però accompagnato da un gesto profetico («Chinatosi si mise a scrivere col dito per terra») con il quale Egli rimanda i suoi interlocutori al giudizio di Dio, di fronte al quale tutti gli uomini sono peccatori e «sarà scritto sulla polvere chi si allontana da te» (Ger 17,13). È un gesto di chiara condanna dei colpevoli che gli Scribi, esperti nelle Scritture avrebbero potuto e dovuto comprendere. Cosa che invece non avviene perché il Vangelo racconta che essi continuavano a interrogarlo. Ma se gli accusatori non hanno ancora capito il muto gesto di Gesù, la sue parole: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» li costringono a pensare ai loro peccati. E poiché dopo aver parlato Gesù ripete lo stesso gesto, continua cioè a scrivere sulla polvere, essi devono finalmente convincersi a desistere dal perseguire la donna e ad allontanarsi consapevoli dei loro peccati. È Dio che giudica; è Dio che scrive i peccatori sulla polvere secondo quanto detto da Geremia citato prima.
Svergognati, gli accusatori che sono costretti ad andarsene, l’episodio raggiunge il suo punto vertice proprio ora che finalmente «rimase solo Gesù con la donna là in mezzo». Queste parole del Vangelo lasciano supporre che il popolo che era venuto nel tempio per ascoltare Gesù che insegnava era ancora presente, quale testimone privilegiato del dialogo di Gesù con la donna. È Lui che prende l’iniziativa, si alza, la guarda e le rivolge la parola. Non le chiede che cosa realmente abbia fatto o di scusarsi di quello che ha compiuto ma le fa due domande: «Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Tali domande servono a mettere la donna a proprio agio, a darle la possibilità di parlare, di esprimersi come soggetto (“Donna”), mentre sino a quel punto essa era stata soltanto oggetto di discussione. La donna può finalmente tirare un sospiro di sollievo e a Gesù, che ancora non aveva espresso il suo pensiero, risponde con timore reverenziale: «Nessuno, Signore». Gesù, l’unico senza peccato, che avrebbe potuto scagliare per primo la pietra contro di lei, mandato però da Dio nel mondo come messaggero e operatore di misericordia le dice: «Neanche io ti condanno» e aggiunge subito alla donna una parola che rivela il senso di quanto detto prima: «Va’ e d’ora in poi non peccare più». Le è concessa la misericordia di Dio perché eviti di peccare in futuro. Si noti la novità di queste parole. Mentre nell’episodio della peccatrice pentita (Lc 7,36-50), la donna mostra prima di essere pentita e poi viene accolta da Gesù, nell’episodio dell’adultera essa riceve il perdono di Dio senza alcuna condizione previa. Gesù non accoglie soltanto i peccatori pentiti, ma cerca anche chi è andato perduto per salvarlo (Mc 2,17).
4. C’è un’analogia tra quanto Gesù dice all’adultera e quanto Gesù risorto dice a Paolo nell’evento di Damasco che è allo sfondo del tratto autobiografico della seconda lettura. Entrambi sono invitati a non guardare al passato ma al futuro. Per l’apostolo il presente e il futuro della sua vita è Gesù Cristo il Risorto, è Gesù il tesoro trovato nel campo, la perla preziosa acquistata dal gioielliere che ha cambiato radicalmente la sua vita. La comunione vitale con il Risorto Gesù è il parametro con il quale egli valuta tutto ciò che gli accade nella sua vita, perciò Paolo ha scelto di legare il suo destino a quello di Gesù: «Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti» (Fil 3,10-11). E ciò non solo con l’evento sacramentale del battesimo, ma con un’esistenza vissuta ogni giorno con la volontà di conformare la sua vita alla passione e alla risurrezione di Gesù. Si tratta di un cammino lungo, che dura tutta quanta la vita, nel corso del quale il processo di assimilazione dell’esistenza cristiana a quella di Gesù può crescere e diventare perfetto, ma può anche decrescere e subire involuzioni. Paolo confessa che pur essendo stato “afferrato” da Cristo e pur avvertendo la presenza viva del risorto nella sua esistenza di cristiano e di apostolo, non si sente di “aver afferrato” Cristo, di essere annoverato cioè tra i perfetti. Ma si sente come un atleta impegnato nella corsa per raggiungere il traguardo che coincide con la comunione piena e definitiva con il Signore Gesù: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare verso il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù» (Fil 3,12).

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