Chiesa del Gesù - Roma, Commento V DOMENICA DI PASQUA

At 14,21-27; Sal 144; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35
V DOMENICA DI PASQUA
Il Vangelo ci trasmette il testamento di Gesù alla sua comunità.


Subito dopo il gesto della lavanda dei piedi e il tradimento di Giuda nella notte della sua anima, l’evangelista Giovanni riporta questo dono e compito che Gesù lascia ai suoi discepoli: il comandamento dell’amore.

È la forma pasquale del “rimanere” nell’amore della pericope del Pastore bello e buono.

L’amore/agape è ciò che ci conforma pienamente a Cristo.

Si tratta propriamente di una “estasi”, cioè di un uscire da se stessi per accogliere in sé la forma di Cristo.

La «forma e la figura di Cristo in noi è l’amore» – così si esprimeva Cirillo di Alessandria.

Ciò significa concretamente che “rimanere nell’amore” si declina sempre come vivere l’amore secondo quanto abbiamo sperimentato, contemplando Cristo.

L’amore ci fa partecipare delle energie del Risorto e ci fa passare dalla morte alla vita.

L’invito a “rimanere” non è una chiamata alla staticità ma è l’appello a entrare in una mentalità dinamica per confessare nelle relazioni quotidiane la forza della fede pasquale.

Le parole che Gesù pronuncia ai suoi prima della passione e morte, indicano la via dell’essenzialità nell’amore.

In fondo – come dice Girolamo – «se questo fosse anche l’unico comando del Signore, basterebbe».

L’uomo è spesso preoccupato di cosa rimarrà di lui dopo la morte.

Gesù con queste parole vuole che dopo la sua morte di lui resti l’amore tra i discepoli: «Come io vi ho amati, così anche voi amatevi gli uni gli altri».

Non è un comando idilliaco o romantico, anzi vi è in esso qualcosa di drammatico.

Gesù ci sta chiedendo di convertire il nostro sguardo sull’altro facendo divenire il limite che egli rappresenta per noi un’occasione di amore.

È uno sguardo che non ci è naturale e il Signore lo sa, altrimenti non ce lo avrebbe comandato.

Gesù ci chiede una accoglienza che si oppone a un istintivo rigetto, un riconoscimento dell’altro che vince la naturale negazione, una ospitalità che prende il posto dell’ostilità.

Non è un comando opzionale: qui non ne va semplicemente della nostra bontà, ma della presenza delle energie del Risorto in questo mondo.

Se nel mondo non si vedono i segni di risurrezione forse è perché non viviamo autenticamente l’amore di Cristo; non siamo sua trasparenza perché non ci lasciamo pienamente conformare a lui.

La presenza di Cristo vivente si manifesta nello spazio relazionale intracomunitario: l’amore è un dono “gli uni per gli altri”.

Sant’Ignazio di Antiochia ha espresso così questa verità: «Nella vostra armonia e nel vostro amore concorde si canta Gesù Cristo».

Cristo si fa presente e vivente nell’amore che abita le relazioni nella comunità cristiana.

Una conformazione a Cristo che non è solo del singolo cristiano ma di tutta la comunità.

È ciò che opera lo Spirito santo nell’azione liturgica dandoci la forma di un corpo ecclesiale vivente e unito a Cristo, come le membra al capo.

Ciò che si realizza in noi – come Chiesa – è cantare Gesù Cristo, ovvero celebrare esistenzialmente la sua presenza di Risorto in mezzo a noi.

E Gesù mette in pratica per primo il comandamento che ci ha offerto: ama Giuda anche se questi ha già in animo il tradimento.

È la disarmante oggettività dell’amore di Gesù che accoglie Giuda che tradisce, che riconosce Pietro nonostante lo rinneghi, che custodisce il rimanere nell’amore da parte del discepolo amato.

Nell’amore donato “fino alla fine” Gesù riconosce il segno della sua glorificazione.

La morte rappresentata dall’odio e dalla vendetta, dalla ripicca e dall’esclusione sono già vinte da Gesù proprio nel suo amare il fratello che si è fatto nemico e mentre è nemico.

La resurrezione sarà espressione della forza vivificante dell’amore.

In questo discorso di addio, Gesù ci dà la chiave della nuova evangelizzazione: l’amore che unisce i cristiani tra loro.

È ciò che lo Spirito suggerisce al nostro cuore perché diventi una forza, un fuoco dirompente di annuncio del Vangelo.

Solo l’amore e la concordia può narrare agli uomini la presenza vivente e operante del Risorto.

È la novità di cui parla la pagina dell’Apocalisse.

La sposa, adorna per lo sposo, è la nuova umanità liberata dal peccato, santificata da Cristo e splendente della sua gloria e della sua bellezza.

Questa perfezione che la risurrezione di Cristo ha inaugurato si manifesta come comunione tra Dio e l’umanità e tra gli uomini fra loro.

Il corpo trasfigurato del Risorto è la Chiesa conformata a Cristo nel suo amore.



MM

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