Don Bruno FERRERO sdb"Vi do un comandamento nuovo..."

24 aprile 2016  | 5a Domenica di Pasqua - Anno C   |  Omelia
Vi do un comandamento nuovo...
La domanda che logicamente continuiamo a porci è sempre la stessa: "Perché il Figlio di Dio è
venuto in mezzo a noi? E per che cosa è dovuto morire? Che cosa ha detto di tanto pericoloso?".
Un'antica favola ci può aiutare a intravedere un riflesso della risposta:

Un re si innamorò follemente di una popolana povera ma attraente e ordinò che la portassero nel palazzo reale. Era seriamente intenzionato a sposarla e a farla diventare regina.
La giovane si ammalò gravemente e misteriosamente il giorno stesso in cui mise piede nel palazzo reale. Peggiorò rapidamente.
Furono chiamati i più celebri medici e guaritori del regno, ma non riuscirono a fare nulla. La povera ragazza si dibatteva ormai tra la vita e la morte. Disperato, il re offrì la metà del suo regno a chi fosse stato capace di curarla. Nessuno però si fece avanti.
Si presentò soltanto un vecchio saggio, che chiese il permesso di parlare da solo con la ragazza. Dopo il colloquio fu ricevuto dal re, che si tormentava nell'attesa.
"Maestà", disse il saggio, "ho un rimedio infallibile per la vostra promessa sposa. È un rimedio molto doloroso… non per la ragazza, ma per vostra maestà".
"Dimmi qual è!", gridò il re. "Sarà applicato, costi quel che costi!"
Il saggio fissò gli occhi del re e disse: "La ragazza è innamorata di uno dei vostri soldati. Datele il permesso di sposarlo e guarirà immediatamente".
Il re rimase silenzioso. Amava troppo la ragazza per lasciarla morire. Acconsentì alle nozze tra la ragazza e il soldato.
La ragazza naturalmente guarì. Il re divenne però ogni giorno più triste, cominciò a deperire e si aggravò fino a trovarsi in punto di morte. Fu chiamato il saggio che aveva guarito la ragazza. L'anziano si recò al capezzale del re, ma poi scosse tristemente il capo e mormorò: "Povero re! Non c'è rimedio per lui, perché nessuno lo ama come lui ama".
Per questo Dio sulla terra ha dovuto morire. Nessuno lo ama come lui ama.
Abbiamo appena ascoltato alcune tra le ultime parole importanti dette da Gesù ai suoi discepoli, le sue ultime, accorate raccomandazioni:

"Figlioli, ancora per poco sono con voi.
Vi do un comandamento nuovo:
che vi amiate gli uni gli altri.
Come io ho amato voi,
così amatevi anche voi gli uni gli altri".

È una frase di una dolcezza infinita. Comincia con "Figlioli", ma la parola greca usata dall'evangelista dovrebbe essere tradotta con: "Bambini miei". Poco prima Gesù ha compiuto un gesto sconvolgente: ha lavato i piedi ai suoi discepoli. E ha spiegato il suo gesto: "Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi".
Anche qui c'è quella piccola parola che abbiamo sentito nel brano del vangelo: come.
Amarci come Lui ci ha amati!
È una missione gigantesca per i cristiani. È come dire: alzatevi al mattino e poi scalate l'Everest!
Amare come Gesù non è un semplice invito del tipo: "Vedete di volervi bene, ragazzi". Gesù è venuto proprio a svelarci l'amore "folle" di Dio per le sue creature. Sulla croce egli ci ha svelato, in modo sorprendente, proprio questo amore misericordioso di Dio.
Gesù avvertiva che il suo messaggio di amore incondizionato doveva far fronte a diverse resistenze. E prevedeva anche l'eventualità di finire ammazzato. Poteva fuggire, ma non lo fece, rimanendo fedele al proprio messaggio fino in fondo, impegnando la sua stessa vita e mostrando di amarci fino a morire sulla croce.
In Gesù, Dio stesso accorda il suo perdono perfino agli assassini. Lo sguardo rivolto alla croce ci fa credere all'amore misericordioso di Dio. Anche se non ci sentissimo accettabili nemmeno a noi stessi e ci giudicassimo meritevoli di condanna, dovremmo rimanere certi che Dio non ci condanna ma ci perdona, come Gesù ha perdonato i suoi carnefici. Se mi sento in colpa, l'invito a non prenderla troppo sul tragico perché Dio mi ha già perdonato non basta a sollevarmi. In una situazione del genere le sole parole non bastano a dare fiducia. Dobbiamo guardare alla croce di Gesù e credere fin dal più profondo del cuore che egli mi accetta e mi ama in tutte le pieghe della mia anima.
Il teologo evangelico Paul Tillich definisce il perdono come accettazione dell'inaccettabile. Se nella colpa io sento di non poter essere accolto, lo sguardo alla croce di Gesù mi consente di accettarmi in tutto ciò che io sono, perché sono amato da Dio incondizionatamente.
Gesù è morto in croce perché noi sapessimo che siamo veramente e profondamente amati e perdonati. Essere l'amato di Dio diventa la realtà centrale della mia esistenza.

Del resto sappiamo bene che gli esseri umani sono fatti per l'intimità. Abbiamo bisogno di sentirci sicuri, accuditi, protetti. Non siamo fatti per la solitudine.
Nella commedia Piccola città, Thornton Wilder ha inserito una scena toccante:

La giovane Emily è morta di parto. La conducono al cimitero, e le chiedono: "Emily, puoi ritornare a vivere un giorno della tua vita. Quale preferisci?".
E lei dice: "Oh, ricordo com'ero felice il giorno del mio dodicesimo compleanno. Vorrei ritornare al mio dodicesimo compleanno".
E tutti quelli del cimitero le dicono: "Emily, non farlo. Non farlo, Emily". Ma lei insiste. Vuole rivedere la mamma e il papà.
Così cambia la scena, e lei è lì, dodicenne, nel giorno meraviglioso del suo ricordo. Scende le scale, con un bell'abitìno e i riccioli ondeggianti. Sua madre è però così indaffarata a preparare la torta per il compleanno che non ha neppure il tempo di guardarla. Emily dice: "Mamma, guardami, sono io la festeggiata". E la mamma: "Benissimo, signorina festeggiata. Siediti e fai colazione". Emily resta in piedi e dice: "Mamma, guardami". Ma la mamma non la guarda.
Entra il papà, ed è così occupato a guadagnare denaro per lei che non l'ha mai guardata; neppure suo fratello la guarda, perché è troppo preso dalle sue faccende e non ha tempo.
La scena finisce con Emily al centro del palcoscenico che dice: "Per favore, qualcuno mi guardi. Non ho bisogno della torta, né del denaro. Guardatemi, per favore". Nessuno l'ascolta. Allora lei si rivolge ancora una volta alla madre: "Per favore, mamma". E poi si volta e dice: "Conducetemi via. Ho dimenticato com'erano le creature umane. Nessuno guarda gli altri. Nessuno se ne cura più, vero?".
Pensate a una sera qualunque: quante persone si vestono, si profumano, escono di casa sperando di trovare finalmente qualcuno che li ama per quel che sono…
La sensazione di essere maledetti spesso colpisce più facilmente della sensazione di essere benedetti e possiamo trovare molti argomenti a sostegno di quanto affermiamo. Possiamo dire: "Guarda quello che sta succedendo nel mondo: guarda la gente che muore di fame, i rifugiati, i prigionieri, i malati, i moribondi... Guarda tutta la povertà, l'ingiustizia, la guerra... Guarda le torture, gli omicidi, la distruzione della natura, della cultura... Guarda le continue lotte nei nostri rapporti, per il nostro lavoro, per la nostra salute...". Dov'è, dov'è la benedizione? La sensazione di essere maledetti colpisce facilmente, come facilmente diamo ascolto a una voce interiore che ci chiama malvagi, cattivi, corrotti, indegni, inutili, destinati alla malattia e alla morte.
Non è più facile per noi credere che siamo maledetti piuttosto che benedetti?
Esseri i figli amati di Dio significa invece essere benedetti.
In modo radicale, totale, reale, infinito.

Non è solo un bel pensierino consolatorio.
L'amore di Dio è dinamico e creativo: ci cambia, ci trasforma.
Dobbiamo incarnare la verità dell'amore di Dio per noi in ogni cosa che pensiamo, diciamo o facciamo.
Non dobbiamo crogiolarci in questo pensiero, ma considerarlo un motivo per amare a nostra volta. Gesù manda i suoi discepoli a diffondere l'amore di Dio fra tutti.
In teoria, i cristiani sono persone che sanno amare in modo perfetto, o almeno ci provano. San Paolo, storicamente il più grande esperto di comunità, nella lettera agli Efesini afferma che per realizzare una vera comunione occorrono quattro atteggiamenti. Il primo è l'umiltà. Si tratta del coraggio di guardare in faccia la propria verità. Questo ci mette al riparo dal rischio di proiettare sugli altri i nostri errori. La vera umiltà è il contrario dell'intolleranza, dell'aggressività, della durezza, della presunzione e della sfiducia.

Negli antichi codici c'è la storia di una fanciulla che aveva fatto parte del gruppo delle donne che avevano accompagnato Gesù fin sul Calvario.
Era una giovane timida, silenziosa e riservata.
Alla notizia della Risurrezione, non aveva avuto bisogno né di visioni, né di conferme. Aveva creduto subito. Spinta da un coraggio che non aveva mai avuto prima, era diventata pellegrina per annunciare le parole di Gesù. Non aveva più paura. Predicava nelle città e nei villaggi.
Un giorno le si avvicinò un uomo, che era stato profondamente impressionato dalla sua testimo-nianza. L'uomo le chiese:
"Dimmi, qual è il segreto del tuo coraggio?".
"L'umiltà. Così mi ha insegnato il Maestro".
L'uomo rimase un attimo in silenzio, poi chiese ancora: "E a che cosa serve l'umiltà?".
"A dire per prima: "Ti voglio bene"".
Il secondo atteggiamento è la mitezza. È l'atteggiamento di chi evita ogni acida durezza. Il terzo atteggiamento è la magnanimità. Consiste in un cuore grande e immenso, aperto ai più diversi caratteri. Chi ha un atteggiamento così aperto e generoso non esclude nessuno dalla comunità, lascia spazio a ognuno. Nel suo cuore ognuno può trovare accoglienza.
E il quarto atteggiamento prevede che i cristiani debbano sopportarsi vicendevolmente con amore. Devono tollerarsi l'un l'altro e farsi spazio a vicenda. Non devono orientare l'altro secondo il proprio metro di misura, ma lasciare che sia come egli è. L'altro può essere completamente diverso da me. Le differenze e l'originalità fanno crescere il mondo.

Questa è addirittura la missione più concreta dei cristiani:

"Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli:
se avete amore gli uni per gli altri".

I cristiani hanno questo impegno nei confronti del mondo: la costruzione di una comunità di esseri umani che manifesta Dio, in modo che chiunque la guardi dica istintivamente: "Ecco com'è fatto Dio!".
Per questo la parola d'ordine dei cristiani è: comunione. Non è una parola magica, ma un impegno preso con l'intera comunità umana. La predicazione non è fatta di termini astratti e generici, ma è legata all'immagine con cui si presenta la comunità.
La comunità è come un grande mosaico. Ogni pezzetto sembra insignificante: uno è rosso vivo, l'altro blu elettrico o verde scuro, un altro ha il colore della porpora, l'altro la vivacità del giallo, un altro ancora è oro splendente. Alcuni sembrano preziosi, altri comuni. Alcuni sembrano di valore, altri ne paiono privi. Alcuni appaiono brillanti, altri delicati. Se consideriamo le singole pietre, possiamo far poco con esse, se non paragonarle tra loro e giudicare la loro bellezza e il loro valore. Quando invece tutte queste pietruzze vengono messe insieme in un grande mosaico che rappresenta il volto di Cristo, chi metterebbe in questione l'importanza di ciascuna di esse? Se una manca, anche la meno spettacolare, il volto è incompleto. Messi insieme nell'unico mosaico, tutti i tasselli sono indispensabili e danno un contributo unico alla gloria di Dio. Questo è la comunità: una fraternità di piccole persone che insieme rendono Dio visibile nel mondo.

"Quando ti accorgi che la tua famiglia va bene?", chiesero a una bambina.
La bambina sgranò gli occhi sugli interlocutori e rispose semplicemente:
"Quando vedo mamma e papà che si danno i bacetti".

Come in una famiglia,
la comunione dei cristiani proclama la presenza di Dio nel mondo.

Don Bruno FERRERO sdb
 Fonte:  www.donbosco-torino.it  

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