Abbazia Santa Maria di Pulsano,lectio «DELLA PECCATRICE PERDONATA»

DOMENICA «DELLA PECCATRICE PERDONATA»
XI del Tempo per l'Anno C

Luca 7,36-8,3; 2 Sam 12,7-10.13; Sal 31; Galati 2,16.19-21 (leggi 2,15-21)


Antifona d'Ingresso Sal 26,7.9
Ascolta, Signore, la mia voce: a te io grido.
Sei tu il mio aiuto,
non respingermi, non abbandonarmi,
Dio della mia salvezza.

Dal Signore provengono tutte le benedizioni e tutta la misericordia, mentre dal suo nascondimento viene l’abbandono della morte. Per questo la Divina Liturgia si apre con la preghiera dell’orante del sal 26 (antif. d’ingresso) dove tutta l’assemblea grida col salmista il suo bisogno di aiuto e di grazia. Venga il Signore in aiuto cancellando il peccato dell’uomo.

Canto all’Evangelo 1 Gv 4, 10
Alleluia, alleluia.
Dio ha amato noi e ha mandato il suo Figlio
come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Alleluia.

Il versetto del canto all’alleluia ci ricorda che Dio ci ha amati per primo e come risultato del suo amore ha inviato il Figlio quale Propiziazione per i peccati degli uomini. Il termine hilasmós, propiziazione, ricorre anche in 1 Gv 2,2; e significa la distruzione dei peccati in forza del sangue sacrificale.
Tra le opere della Carità del Regno, che Gesù, battezzato dallo Spirito Santo, compie nel medesimo Spirito Santo percorrendo le vie degli uomini, quelle della Galilea, sta anche quella, sublime e propriamente divina, di rimettere, ossia di annullare i peccati degli uomini. Questo potere appartiene solo alla Grazia sovrana del Padre, che a tale scopo consacra il Figlio con lo Spirito Santo.
I quattro evangeli riportano il racconto di un'unzione compiuta da una donna nel contesto di un banchetto. Mentre Matteo (26,6-15), Marco (14,1-11) e Giovanni (12,1-11) la collocano nel contesto della passione, come profezia della morte e sepoltura del Cristo, Luca (7,36-8,3) propone un racconto diverso, l'unico in cui la donna è introdotta come “peccatrice”. È bene notare che il testo gioca fin dall'inizio sul contrasto tra la donna peccatrice e il fariseo giusto e osservante.
In un tempo in cui le donne non contano nulla nella vita sociale, Gesù ne associa più di una alla sua missione, e arriva fino ad infrangere certi tabù tradizionali per meglio accogliere il pentimento di una peccatrice.
Durante un pranzo offerto a Gesù dal fariseo Simone, entra nella sala una persona inattesa: senza dubbio una di quelle prostitute da cui un rabbino del tempo imponeva di tenere una distanza di due metri. Forse ha seguito a lungo Gesù, osservando le sue azioni e ammirando i suoi discorsi. In ogni caso, è pronta a rinnovarsi, a rinunciare al suo genere di vita, perché ha intuito che quell'uomo è venuto proprio per gente come lei. Il suo atteggiamento non ha nulla a che vedere col riserbo calcolato dei fariseo. Le sue lacrime sono il fiore del suo pentimento, il sangue della sua anima: questo pianto, gioioso e triste insieme, le apre le porte della beatitudine, perché «solo il pianto conduce al sorriso della felicità» (Origene). Senza saperlo, la donna è degna di essere perdonata. Gesù non s'inganna: sa bene di averla conquistata prima ancora che si fosse arresa. Di fronte al fariseo, sicuro della propria religiosità e della propria devozione, convinto di avere poco da farsi perdonare, questa donna dimostra di avere un'anima totalmente aperta alla grazia, capace di offrirsi a Dio senza difese, permettendo così all'amore di trasformare un cuore di pietra in un cuore di carne. «Ti sono perdonati i tuoi peccati». Gesù non mette delle toppe: rinnova le coscienze. Quando si conosce la sua misericordia, più vasta del cielo, non ci si stupisce più: di uno straccio raccolto nel fango egli fa uno splendido abito di nozze; da un delinquente sa trarre un santo. Se è vero che gli esseri vengono modellati dallo sguardo che si rivolge loro, non dimentichiamoci che noi viviamo sotto lo sguardo d'amore del Cristo. In lui, la nostra morte non è più davanti, ma dietro a noi: possiamo cercare di vivere, cercare di amare. Come la peccatrice, per la quale tutto comincia.
La pericope è collocata da Luca subito dopo la risurrezione operata a Nain: in entrambi gli episodi una donna incontra il potere risanante di Gesù. La scena può essere articolata in tre parti, precedute dal v. 36, che ha lo scopo di introduzione:
1. La prima scena (vv. 37-39) descrive un incidente imprevisto: una donna entra nella casa di un fariseo durante un banchetto in onore di Gesù.
2. La seconda scena (vv. 40-47) riferisce il dialogo tra Gesù ed il padrone di casa.
3. La terza scena (vv. 48-50) riporta la reazione dei convitati e le parole rivolte da Gesù alla donna.
La lettura liturgica prosegue poi il racconto (Lc 8,1-3) con Gesù che ammette al suo seguito insieme agli apostoli «alcune donne che erano state guarite» ulteriore testimonianza, come vedremo nel commento successivo, di amore, fedeltà e servizio (διακονέω) al Signore e ai dodici: Amore e servizio alla Chiesa dunque, come vediamo ancora oggi.
La lettura liturgica affianca la pagina evangelica ad un episodio tra i più foschi dell'A .T.: il peccato di Davide con Betsabea. Il redattore descrive il misfatto vigliacco, scellerato, vergognoso, ignobile, di David e della sua degna complice Betsabea, che dopo l'adulterio, nel disperato tentativo di nasconderlo, fa uccidere proditoriamente il marito innocente dell'adultera. Adulterio regale, assassinio regale. L'antefatto è narrato nel cap. 11.
Il Signore allora invia il profeta Natan da Davide. Il vecchio amico del re gli aveva predetto da parte del Signore una discendenza eterna (cap. 7). Il medesimo adesso deve portare il giudizio e la condanna del tribunale divino, che tutto vede e tutto giudica con sovrana giustizia.
Nei vv. 1-4 Natan narra a David la parabola del povero che possiede solo una pecorella, e del ricco sfondato e sfrontato come tutti i ricchi della terra, che gliela sottrae con violenza per preparare una cena gaudente ai suoi ospiti corrotti e viziosi come lui. Sentendo questo Davide, sempre generoso nonostante tutto, grida la sua indignazione, e minaccia di morte quel ricco, oltre che di espropriarlo per la giusta restituzione al povero (vv. 5-6). E non sa ancora che è proprio lui. Infatti inesorabile gli grida Natan: «Tu, quell'uomo!»
Quando l'uomo ha peccato, le religioni di tutti i tempi prevedono, da parte di Dio, una lista di castighi, e da parte dell'uomo dei riti di purificazione. Natan è il primo ad annunciare che Dio non pensa al castigo, e che il rito purificatore non serve. Nell'interpellare la coscienza di Davide, egli ricorda che in materia di peccato non sono i castighi in se stessi o le abluzioni rituali che riparano il male commesso, ma la relazione personale dell'uomo con Dio e con i fratelli, una relazione che il peccato può addirittura contribuire ad approfondire, attraverso una «conversione».
Anzitutto il Signore gli rinfaccia di averlo consacrato re d'Israele e di averlo scampato dalla persecuzione di Saul (v. 7), e poi di averlo ricolmato di benefici degni del suo rango, tra cui la reggia di Saul e le sue donne (il harem in Oriente è in prevalenza il segno della maestà e dello sfarzo regale), e poi di avergli donato il dominio sia su Giuda, sia su Israele. E se non fosse bastato, sarebbe stato pronto a donargli ancora di più (v. 8). Ma viene con «rabbia profetica» l'accusa centrale: perché egli disprezzò la Parola di Dio facendo il male, uccidendo il valoroso soldato Uria il Hittita, rubandogli la moglie e facendolo trucidare dai nemici implacabili, gli Ammoniti? (v. 9). Il dispositivo della sentenza è drastico: egli ha disprezzato il Signore. Si noti: «la Parola del Signore» al v. 9, è in fondo «il Signore» del v. 10. Davide ha commesso l'abominio dell'adulterio e dell'omicidio, perciò la spada vendicatrice non abbandonerà più la casa regale (v. 10). I cap. 13-18 lo mostrano in abbondanza, con l'incesto tra fratelli in famiglia, con fratricidi, con la tragica rivolta del figlio amato Assalonne.
Davide si sente annichilito, e trafitto nel cuore esclama: «Peccai contro il Signore!» Natan allora gli comunica che il Signore già è passato sul suo peccato, perciò nonostante tutto non morirà (v. 13).
Pur con i suoi orribili misfatti, Davide serve al Disegno di Dio, che porta fino al Figlio suo, Gesù, che sarà anche il Figlio di Davide (Rom 1,3), e nella fedeltà del Signore resta la figura del re messianico. La Chiesa lo chiama anche Profeta per il Salterio, che in parte è opera sua, sia come compositore, sia come ordinatore di raccolte di Salmi. E lo chiama il santo profeta, tributandogli qua e là anche un culto. La genealogia di Gesù lo cita (Mt 1,6; Lc 3,31). Invece il nome dell'empia Betsabea è evitato con un giro di parole nella genealogia di Matteo (1,6): «Davide generò Salomone da quella che fu la moglie di Uria». Il valoroso Uria fa parte in certo senso del regale corteo delle vittime innocenti che stanno intorno a Gesù, mentre la sua donna fedifraga non è degna di essere chiamata per nome.
La teologia della storia, come si vede, è difficile. Solo Dio, che la scrive tutta, vi sa leggere per intero.
Il Salmo responsoriale è il 31,1-2.5.7.11, AGI una confessione sincera di colpe. Perciò, anzitutto con ammirazione devota l'Orante riconosce una "beatitudine" a colui al quale Dio rimette le colpe (Sal 84,3, e Rom 4,7-8; poi Es 34,7; Is 38,17; Michea 7,18-19), e gli nasconde per sempre il peccato sotto il manto della divina misericordia (v. 1). E continua poi nel riconoscere la beatitudine anche di colui contro il quale Dio non conta le sue colpe, oppure non ne trova in lui (2 Cor 5,19), ossia nel cui animo non esiste l'inganno (v. 2; Sof 3,13); quest'ultima espressione è detta da Gesù a proposito di Natanaele, vero Israelita (Gv 1,47).
L'Orante ricorda al Signore che gli ha confessato il suo peccato (Sal 37,19; Giob 33,27; Lc 13,18.21; 1 Gv 1,9), senza nulla nascondergli, anche perché sa bene che comunque il Signore tutto scruta e tutto giudica. Nella sua conversione, l'Orante ha preso la decisione ferma: egli vuole confessare contro se stesso la sua condizione di iniquità. Proprio di fronte a questo atteggiamento, che il Signore desidera dai suoi fedeli, egli ottenne il perdono. L'Orante sa che così non solo non fa danno a se stesso, ma riceve dal Signore l'immenso beneficio del perdono (v. 5).
Perciò adesso può far seguire la professione della sua fede: il Signore è l'unico suo Rifugio contro la tribolazione che lo opprime da ogni parte. È la sua Gioia, e può chiedergli di essere liberato da quanti lo circondano per assalirlo e attentare alla sua esistenza (v. 7). E conclude allora con tre imperativi innici posti in parallelismo, due rivolti anzitutto ai giusti, invitati a gioire e ad esultare nel Signore (Sal 32,1; 63,11; 67,4; 96,11-12), che ha donato ad essi la sua grazia; e uno ai retti di cuore, anche essi gratificati dal Signore (Sal 7,11; 35,11; 63,11; 96,11), affinché nel loro Signore trovino tutta la loro glorificazione (v. 11). Il Versetto responsorio, v. 5d, adattato, è un'epiclesi rivolta ripetutamente al Signore misericordioso per ottenere il perdono del peccato.
La lettera apostolica di oggi prosegue la lettura di Galati (2,16.19-21), e per una volta l'epistola si accorda con l'Evangelo. Contro i cristiani che predicano l'osservanza della Legge antica, perché sono ebraizzanti, Paolo avverte questi suoi fedeli momentaneamente deviati, se non traviati del tutto da una predicazione insidiosa di "altri" e falsi apostoli, che la giustificazione, la grazia della redenzione, non proviene dagli sforzi umani, di chi crede che adempiendo in modo scrupoloso i precetti legali si guadagni con ciò stesso dei meriti davanti al Signore. La giustificazione, l'essere riammessi all'amicizia divina nella santità, proviene dal Signore, e solo per Grazia, la Grazia fontale che è il dono della fede proveniente da Gesù Cristo (v. 16). È uno dei problemi gravi che tratta Paolo, tra i più importanti.
Egli comunica poi ai suoi fedeli che proprio a causa della Legge egli è morto alla mentalità legalistica, al fine di vivere ormai solo per Dio. Si è lasciato concrocifiggere con il Crocifìsso. Ha voluto seguire spiritualmente la sorte del suo Signore (v. 19).
Prima di Paolo, la morte di Cristo imbrazzava gli apostoli: essi cercavano di giustificarla partendo dalle scritture e rendendone volentieri responsabili i giudei (cf. At 2,22-30). Paolo supera tali complessi: per la prima volta, egli canta la morte di Cristo in se stessa. Questa non solo sanziona la legge, ma la «uccide». Sotto la penna di Paolo, la croce diventa il modo di crocifiggere la legge, di distruggere in noi la connivenza con il legalismo rassicurante, facendoci capaci di vivere il dono gratuito di Dio. È sempre più facile chiudersi in un'osservanza che spezzare le catene e vivere nella libertà.

Esaminiamo il brano

v. 36 - Luca narra adesso che un fariseo, invita a casa sua per un pranzo Gesù e altri ospiti. Non sarà la prima volta (cfr 11,37; 14,1). L’evangelista offre poche informazioni: introduce il protagonista soltanto come un fariseo, senza spiegare le motivazioni che lo hanno spinto ad invitare Gesù: desiderio di ascoltarlo? stima? curiosità? metterlo alla prova? Più tardi altri particolari emergeranno: il suo nome, Simone, l'omissione di alcuni gesti di ospitalità, la presenza di altri commensali. Ma per ora sappiamo soltanto che Gesù accetta l'invito, entra in casa e si siede a tavola.
v. 37 - Mentre tutti mangiano, una donna si presenta. Non è stata invitata e non è affatto gradita, perché è una notoria peccatrice. Il che significa una prostituta, destinata a creare imbarazzo dovunque vada. Ella porta con sé un costoso vasetto di alabastro pieno di unguento profumato e costoso, che piace tanto agli orientali, anche a Gesù. Nelle tombe dell'antico Oriente se ne sono trovati molti esemplari, alcuni dei quali di artistica fattura, talvolta anche di materiale prezioso. Per ora Luca pone di fronte un fariseo ed una peccatrice: un uomo considerato giusto dalla Legge, ed una donna che la stessa Legge esclude dalla comunione con Dio. Notiamo però che come lettori arrivamo a questo punto con un bagaglio di informazioni a riguardo di farisei e peccatori, raccolte nella lettura dei capp. 1-7. I farisei appaiono sulla scena in 5,17-26. La loro descrizione è piuttosto neutrale: osservano, si interrogano sull'identità di Gesù ed è possibile che condividano il “timore” delle folle (5,26). Il loro atteggiamento appare più ostile in 5,27-30, dove iniziano a “mormorare” per la familiarità con cui Gesù si rapporta verso i peccatori (5,27-32) e la sua non osservanza delle norme della Legge (5,33-35). La situazione cambia radicalmente nel cap. 6: continuano ad osservare Gesù, ma con uno scopo diverso: «trovare di che accusarlo» (v. 7). La guarigione di un uomo non produce “timore”, ma “rabbia” (v. 11). In 7,30, leggiamo infine una frase molto dura: «Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro». Passando ai “peccatori”, l’evangelo descrive l'esistenza di un legame particolare con Gesù, definito “amicizia” dalla gente (7,34). Accusato per la sua inconsueta familiarità con loro, Gesù afferma: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (5,32). Con queste informazioni entriamo nella scena in cui un fariseo ed una peccatrice si stanno rapportando a Gesù.
v. 38 - Comincia così una strana operazione. Secondo l'uso antico, comune anche ai Greci e ai Romani, per mangiare ci si pone semisdraiati su bassi divani, posti in cerchio intorno alla tavola con i piatti comuni. Gesù si trova così, quando la donna, per non disturbarlo, si pone dietro a Lui, gli bagna i piedi di lagrime, glieli bacia e poi glieli unge dell'unguento aromatico e prezioso.
v. 39 - Simone, di osservanza religiosa stretta, nota tutto, e si scandalizza. Infatti dentro di sé pensa che se fosse quel profeta che la gente dice di lui, il Signore saprebbe chi è la donna che «Lo tocca». Ella è un essere impuro, che vive nell'aperta impurità della sua esistenza, è tenuta al margine della società dei pii, è soprattutto rigidamente esclusa dall'assemblea cultuale del popolo santo, che deve rendere culto al suo Signore nello stato della massima purità rituale e quindi morale. Pertanto, chiunque è toccato in qualche modo, anche innocente e lecito, da "quella" donna, è reso impuro, e quindi, finché non abbia compiuto l'apposito rito di purificazione, non può partecipare al culto. Gesù si è volontariamente reso impuro molte volte, toccando lebbrosi, morti e malati, assumendo su di sé quell'impurità per distruggerla, è il Servo che si assume i mali degli uomini (Mt 8,17, che cita Is 53,4).
v. 40 - Gesù conosce il cuore dell'uomo, e i suoi pensieri. Al fariseo, che per timore o per rispetto non ha parlato, "risponde" con un'inaspettata parabola. Colui che è accusato di non conoscere la donna, dimostra dunque di conoscere i pensieri del fariseo. Si rivolge a lui utilizzando il suo nome, Simone, ed entra in dialogo, iniziando un processo di umanizzazione del fariseo, di educazione del suo sguardo. Come Natan a Davide nella prima lettura, Gesù racconta una breve parabola. Scopo del racconto è quello di provocare il fariseo ad un giudizio, servendosi di una vicenda apparentemente lontana dalla realtà e per questo neutrale. Emesso il giudizio, questo viene però trasferito alla realtà come criterio di lettura della situazione presente. Simone risponde in modo logico e riceve l'approvazione di colui che ha chiamato “Maestro”. Il ritorno alla realtà avviene attraverso una domanda estremamente significativa: «Vedi questa donna?». Gesù pone al centro la donna, non la peccatrice, ed invita Simone a guardarla attraverso gli occhi di Gesù.
vv. 41- 42 - Un creditore si attende da due debitori rispettivamente 500 e 50 denari. Come si sa, 1 denaro era circa la paga giornaliera di un operaio. I due debitori tuttavia si trovano a essere morosi e inadempienti. Allora il creditore con generosità abbona ad ambedue il rispettivo debito. La remissione dei debiti, l’àphesis, è l'atto principale del Giubileo biblico (Lv 25,8-22). Per questo Gesù, venuto a portare il Giubileo finale dello Spirito Santo, l’àphesis divina generale di tutte le colpe, rigorosamente richiede ai suoi, che già ottennero il perdono divino, che intanto applichino la remissione dei debiti al loro prossimo (nel «discorso della pianura», Lc 6,29-30.35). E li obbliga a chiedere la remissione delle colpe al Padre, impegnandosi intanto a rimetterle già prima essi al loro prossimo («Padre nostro», Lc 11,4; Mt 6,12).
v. 43 - Ora Gesù rivolge a Simone una domanda in apparenza semplice e innocente, su quale dei due debitori, come contraccambio, dovrà amare di più il suo così generoso creditore. Simone non vede il pericolo in cui Gesù lo sta attirando, vede solo la quantità del debito e del condono, e risponde per sé rettamente che più grato è quello che si vide abbonare i 500 denari. Al che il Signore gli riconosce e attesta che ha giudicato bene (v. 43b).
vv. 44 - 46 - Poi però passa alla lezione di dottrina e di vita. E rinfaccia a Simone il suo comportamento poco premuroso, e non solo riferendosi a "quella" donna, ma addirittura comparando lui con lei, e posponendolo a lei. Chi ne ha esperienza, sa che l'ospite orientale quando riceve uno, lo abbraccia e bacia, gli permette di lavarsi anche con acqua aromatica e profumi per la barba e per la testa, come segno iniziale di gradimento della visita, poi gli offre le ricercatezze. Così Simone non gli ha porto l'acqua per le abluzioni rituali prima del pasto, mentre la "peccatrice" gli ha lavato i piedi con le lagrime e glieli ha asciugati con i capelli (v. 44). Simone non ha baciato Gesù come gesto d'accoglienza, mentre la donna ha di continuo baciato i suoi piedi, segno di totale umiltà (v. 45). Simone non ha offerto l'olio aromatico per il capo, mentre la donna, non osando ungergli il capo, gli ha unto con venerazione i piedi di myron, l'unguento aromatico prezioso (v. 46). Simone ha accolto Gesù come uno sconosciuto, mentre la peccatrice ha compiuto su Lui tre gesti squisiti, inaspettati da una creatura disprezzata e rigettata. Secondo alcuni autori, i gesti di ospitalità omessi da Simone non erano dovuti: talora erano compiuti da uno schiavo. Gesù non vuole rimproverare Simone per la mancanza di gesti di cortesia, ma soltanto stabilire un confronto. Ciò che la donna ha fatto non è dovuto, non entra dunque nell'etichetta giudaica, ma nella gratuità dell'amore. La donna ama e Gesù interpreta e accoglie i gesti della donna per ciò che sono: un gesto d'amore.
v. 47 - Gesù ne tira una conclusione straordinaria. «Per questo», che è l'atteggiamento di muta orazione della donna, a lei sono rimessi i suoi molti peccati, poiché molto amò. Gesù riconosce lo stato di abiezione di lei, non lo nasconde e non lo potrebbe neppure, però l'amore di questa donna per Lui le ha fatto comprendere che è il Signore fattosi presente, e segna anche la sua piena redenzione. La spiegazione che viene è chiara: ama di più chi riceve maggiore remissione. Il testo va interpretato bene, altrimenti ne risulterebbe una dottrina contraria all'Economia divina. Dio dona la sua Grazia all'uomo prima e durante e dopo. La donna non ha affatto "meritato" da sola, per qualche opera compiuta di sua iniziativa, di essere perdonata. Ella viene nella fede piena e a essa si affida (vedi poi il v. 50). Certo, dall'atteggiamento del Signore, che dall'inizio non la respinge, bensì la accoglie, conosce che è già stata perdonata. Prima di venire da Lui sapeva già che sarebbe stata infallibilmente perdonata. Lo sapeva non per proterva presunzione, sapendo che non ne aveva alcun diritto. Ma proprio perché la Grazia divina, e nessun convincimento umano, l'ha raggiunta e investita e l'ha riempita di fede e l'ha spinta ad andare dall'unico da cui ci si attende la Misericordia, dal Signore. La Grazia prosegue il suo effetto nell'azione di amore della donna. E adesso lo completa. Gesù le dice infatti: Sono rimessi i peccati tuoi.
Il v. 47, tradotto nella nostra versione «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato», contiene due difficoltà testuali che hanno attirato, fin dall'epoca patristica, l'attenzione degli interpreti. La prima è il verbo, tradotto nella nostra versione come sono PERDONATI, espresso in greco con un perfetto passivo (cfr. v. 48). Il verbo può essere letto come conferma di un perdono ricevuto in precedenza, oppure come permanenza del perdono ricevuto in questo momento. Luca usa la stessa forma verbale in 5,20, dove Gesù rimette i peccati a un paralitico. Probabilmente qui Luca vuole evidenziare che il perdono ricevuto è compiuto e definitivo. La donna si trova ora in uno status nuovo: non è più una “peccatrice”, ma una “perdonata”.
La seconda difficoltà riguarda l'apparente contraddizione tra il racconto parabolico, dove l'amore è la conseguenza del perdono, ed il v. 47a, dove l'amore ne è causa. Il v. 47 può assumere in realtà due significati diversi, a seconda del senso che si dà alla congiunzione. Se il senso è causale («perché ha molto amato»), l'amore della donna è la «causa reale» del perdono e quindi lo precede; se si dà alla congiunzione il senso conoscitivo o consecutivo («visto che ha amato molto» o «per questo ha amato molto»), l'amore è la prova che la donna è stata perdonata e quindi segue e manifesta il perdono.
«Non si pensi qui che il testo intenda speculare sul momento del perdono. Il perfetto passivo indica l'atto del perdono nella sua dinamicità e sottolinea le sue conseguenze: la donna è libera ed è capace di amare, quindi non può più essere etichettata come “peccatrice”. L'incontro con Gesù conduce all'esperienza dell'amore di Dio e, per chi ne riconosce il bisogno, anche del suo perdono, dato che il perdono è costitutivo dell'Amore. La donna ha molto amato: con il suo amore ha risposto all'Amore-Perdono di Dio incontrato nella persona di Gesù. La contraddizione del v. 47 indica che la riconciliazione è un processo in cui sono coinvolti entrambi, Dio e l'uomo. Perdono e amore sono in correlazione, si corrispondono e si illuminano a vicenda. L'accento, in entrambe le parti del versetto, è posto sul verbo “amare”, sempre in posizione enfatica. «Amare» diventa dunque la chiave interpretativa del racconto: è il criterio fondamentale richiesto da Gesù nel rapporto con Dio e con l'altro» (commento di Nicoletta Gatti su “Servizio della Parola” numero 447 dell’anno 2013).
vv. 48 - 49 – Tutti i fedeli sanno bene che solo Dio rimette i peccati. E infatti i convitati, da buoni Ebrei fedeli, si domandano chi sia questo, che dopo lezioni di etichetta sociale e di morale, adesso addirittura rimette anche i peccati.
v. 50 - Ma Gesù completa l'operazione della Grazia con la formula finale: La fede tua ti salvò, và in pace (cfr anche 8,48; 17,19; 18,42; Mc 5,34). Dio attende di poter donare ampiamente la sua redenzione divina.
L'espressione «la tua fede ti ha salvata» abbiamo ora ricordato che ricorre in Luca quattro volte sempre nei confronti di persone emarginate e ritenute impure: la donna “perdonata” (7,50), l'emorroissa (8,48), il lebbroso samaritano (17,19) e il cieco mendicante (18,42). Il verbo salvare indica la salvezza che investe e coinvolge tutta la persona. L'«essere salvati» significa dunque la piena restaurazione di tutti gli aspetti della vita, inclusa la riabilitazione nella comunità del popolo di Dio. Il dono globale e definitivo della salvezza è indicato ulteriormente dall'imperativo finale: «va' in pace». Essa richiama il concetto biblico dello shalom della pace messianica, del dono escatologico di Dio. Luca adopera la formula soltanto qui e in 8,48, ambedue le volte rivolta a donne nello stato di impurità, cioè escluse dal popolo di Dio. Per queste due donne «andare in pace» significa non solo la certezza della salvezza, ma anche la restaurazione della loro condizione sociale, una nuova dignità e la riammissione nella comunità dei salvati. La donna è riammessa all'amicizia divina, e all'assemblea santa che fa salire al Signore la lode e l'azione di grazie.
Questo insegnamento adesso va rivisto in quello che i fedeli pregano nella santa assemblea. Nel «Padre nostro» il Signore ha insegnato alla lettera così: e rimetti a noi i debiti nostri, come anche noi già rimettemmo ai debitori (Mt 6,12). volendo così inculcare ai discepoli che al momento della preghiera epicletica per la remissione delle colpe essi debbono già avere abbonato i debiti al prossimo, e infatti "rimettemmo" è un verbo all'aoristo, che indica il passato storico puntuale. La riprova che il Signore dice alla peccatrice: «Sono stati rimessi i tuoi peccati», con il verbo al perfetto, con «il passivo della Divinità», il cui soggetto evidente è Dio, che Gesù non vuole nominare per rispetto (v. 47). In contraccambio, la peccatrice «molto amò», per cui la parola conclusiva del Signore può essere: «La fede tua ti ha salvata. Va' in pace» (v. 50).
8,1 - vengono sulla scena anche altre donne, che Gesù accoglie al suo seguito nella loro commovente fedeltà. Infatti mentre Gesù continua con i Dodici il suo ministero di evangelizzazione del Regno insieme con i Dodici, e di certo con gli altri discepoli, era accompagnato, forse provocando qualche perplessità nell'ambiente, anche da alcune donne, che hanno qualche cosa di strano. Esse erano state guarite da lui nelle loro malattie, ma soprattutto erano state liberate dagli spiriti malvagi, espressione che indica anche l'impurità.
vv. 2 - 3 - L'elenco è ristretto ma indicativo. In primo luogo sta Maria detta Maddalena, dalla quale aveva espulso «sette demoni», ossia era stata posseduta dalla totalità orrida dei demoni. Il passo parallelo sta in Mc 16,9. Vengono poi in questione Giovanna, moglie di Cuzà (forse Hozaj, dalla radice hazah, vedere), un procuratore di Erode; Susanna (il bellissimo nome sosannah significa giglio, fiordaliso). Luca aggiunge al breve elenco: «e altre molte». L'annotazione finale e riassuntiva mostra l'opera che queste donne prestano al Signore e ai Dodici, «li servivano», verbo diakonéò, a spese loro. Gesù è il povero per eccellenza, e trova molta carità intorno a Lui. Però qui il plurale "li", che indica anche il seguito maschile di Gesù, dice che quelle donne generose e silenziose prestavano la loro diaconia anche a questi discepoli, che il Signore aveva scelto affinché, rinunciando a tutto, fossero volontariamente poveri come Lui, e potessero così dedicarsi al ministero della predicazione del Regno insieme con lui. L'elenco delle donne che seguivano Gesù è diverso in vari testi dei Sinottici. Esso è appena accennato da Giovanni. È chiaro che ciascun evangelista per gli scopi della propria esposizione si serve di liste varie. L'importante però sta in altra direzione. Queste donne seguono il Signore dovunque vada. Fino alla Croce. Anzi Giovanni esemplarmente ne registra la fedeltà totale, quando narra che sotto la Croce con la Madre del Signore stavano solo «la sorella della Madre di Lui, Maria di Cleopa e Maria Maddalena» (Gv 19,25). Queste Donne fedeli stanno presenti alla sepoltura. E tornano al sepolcro, quando a esse per divino indicibile privilegio è recato l'annuncio della Resurrezione del loro Signore amato. Peccatrici redente, almeno alcune, mostrano con i fatti una fedeltà assoluta, commovente, che invece i discepoli fanno dolorosamente mancare al Signore dopo il Getsemani. Così le Donne fedeli, non gli uomini, sono le prime e privilegiate destinatarie dell'Evento massimo della Redenzione, la Resurrezione. E spetta ad esse, da allora, di essere nella Comunità il "segno" della Resurrezione, e le perenni annunciatrici che Cristo è risorto. Molto a esse fu perdonato. Molto hanno amato.

II Colletta
O Dio, che non ti stanchi mai di usarci misericordia,
donaci un cuore penitente e fedele
che sappia corrispondere al tuo amore di Padre,
perché diffondiamo lungo le strade del mondo
il messaggio evangelico di riconciliazione e di pace.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...





lunedì 6 giugno 2016
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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