Mons. Benigno Papa“La gente chi dice che io sia?”

DODICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Zac 12,10-11; Gal 3,26-29; Lc 9,18-24
1. La riflessione sui testi della scrittura santa di questa domenica mi

hanno fatto pensare a quanto sia importante ricordare, per la stessa
comprensione della parola di Dio, che il nostro rapporto con Lui non
è un rapporto giuridico quale potrebbe esservi tra il legislatore e il
suddito, e neppure un rapporto didattico, come quello tra maestro e
discepolo, ma è un rapporto vitale: per il dono dello Spirito del
Signore Gesù ricevuto al battesimo, noi figli di Dio, nel Figlio di Dio
per eccellenza che è Gesù, apparteniamo tutti allo stesso corpo che
è la sua e la nostra Chiesa. Per questa appartenenza Cristo è nostro
contemporaneo e il luogo privilegiato per l’ascolto della sua parola è
la liturgia, e in modo particolare la liturgia eucaristica: la Parola di Dio
conduce all’Eucaristia, trova in essa la sua massima realizzazione e
dalla grazia dell’Eucaristia i battezzati ricevono luce e forza per
mettere in pratica la Parola.
La parola di Dio accolta con fede conduce il credente all’Eucaristia:
la sete di Dio di cui parla il Salmo responsoriale trova spirituale
appagamento nella parola di Dio, ma soprattutto nella partecipazione
al banchetto eucaristico che permette di nutrirci del corpo e sangue
di Cristo. La seconda lettura parla dei battezzati che in forza del
battesimo sono “uno in Cristo” (Gal 3,28). Questa unità iniziata nel
battesimo trova nella partecipazione all’Eucaristia la sua massima
espressione perché la comunione con Cristo è simultaneamente
comunione con tutti i fratelli di fede. L’epiclesi della seconda anafora
lo mette in evidenza in una maniera splendida: “Ti preghiamo
umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo, lo Spirito
Santo ci riunisca in un solo corpo”. L’annuncio del suo mistero
pasquale fatto da Gesù ai discepoli (Lc 9,22) non è un evento del
passato che resta passato ma è evento del passato la cui valenza
salvifica è presente nel memoriale della celebrazione eucaristica.
D’altra parte il fatto che Luca dopo aver rivelato il mistero di Cristo,
morto e risorto, passa subito a indicare che la vocazione dei
discepoli di Gesù è quella di essere partecipi del suo stesso destino
(Lc 9,23-25), suppone quel rapporto vitale che c’è tra Gesù e i
cristiani per la presenza in essi dello stesso Spirito di Gesù (Gal 4,4-
7); inoltre la messa in atto delle esigenze etiche contenute nella
parola di Dio suppone ed esige la grazia dell’Eucaristia, il
superamento delle discriminazioni religiose, culturali, sociali e
sessuali di cui parla la seconda lettura (Gal 3,27); l’impegno a
crescere sempre di più nell’unità postula l’azione dello Spirito Santo
con la cui luce e forza è possibile raggiungere tali obiettivi. Tradurre
in termini di vita concreta le esigenze della sequela di Gesù indicate
da Luca nel Vangelo (Lc 9,23) è possibile soltanto se i discepoli di
Gesù si lasciano illuminare e guidare dalla grazia dell’Eucaristia. “È
proprio vero che parola ed Eucaristia ci appartengono così
intimamente da non poter essere comprese l’una senza l’altra: la
parola di Dio si fa carne sacramentale nell’evento eucaristico;
l’Eucaristia ci apre all’intelligenza della Sacra Scrittura, così come la
Sacra Scrittura a sua volta illumina e spiega il mistero eucaristico”
(Verbum Domini 55).
2. Il brano del Vangelo, con l’interrogazione di Gesù rivolta ai discepoli
sulla sua identità e con l’indicazione da lui data a tutti che i suoi
discepoli sono resi partecipi del suo stesso destino, segna una svolta
nella dinamica narrativa del Vangelo. Sinora egli aveva rivelato con
le opere e con l’insegnamento la sua identità messianica, ma nulla
aveva detto della sua natura specifica e nulla aveva detto della
modalità propria della sua sequela. Il momento è importante, Luca
non ci dice il luogo dove avviene tale interrogazione ma tiene a farci
sapere che Gesù era in un luogo deserto e pregava. La sua
comunione con il Padre è principio e fine di tutta la sua attività ed è
ciò che ci rivela e di cui ci rende partecipi (Lc 2,49; 23,46: 10,21).
Gesù sa utilizzare il tempo in maniera così sapiente da essere
sempre radicato in Dio (Lc 5,16; 6,12; 3,28) e in mezzo al suo popolo
(Lc 4,42-44; 9,10-11).
All’esercizio del ministero di Gesù, le folle avevano reagito in
maniera positiva per l’insegnamento dato con autorità: lo ritenevano
un grande profeta. Gli scribi e i farisei erano scandalizzati dal fatto
che Gesù aveva osato dire al paralitico “Ti sono rimessi i tuoi
peccati” e si interrogano sulla sua identità e sulla modalità di
intervenire su di Lui (Lc 6,11); il tetrarca Erode chiedeva: “Chi è
dunque costui?” (Lc 9,9), Giovanni Battista invia una delegazione da
Gesù per chiedergli se lui fosse il Messia, gli stessi discepoli dopo la
tempesta sedata si domandavano “Chi è mai costui che comanda
anche ai venti e all’acqua e questi gli obbediscono?” (Lc 8,25). Ora è
Gesù che, volendo quasi fare una “verifica pastorale” della sua
attività evangelizzatrice, pone ai discepoli questa domanda: “La
gente chi dice che io sia?” Le risposte date a Gesù sono le stesse
date a Erode. Sono risposte sbagliate in quante si riferiscono al
passato ma contengono qualcosa di positivo perché c’è il recupero
della figura del profeta ed è evocata l’idea di una risurrezione che
può contenere un’allusione al futuro di Gesù.
A Gesù però non interessa tanto sapere che cosa pensa la gente su
di lui, ma che cosa pensano i suoi discepoli: “Ma voi chi dite che io
sia?”. Essi erano stati infatti oggetto di particolare attenzione da
parte sua. Erano stati scelti (Lc 5,27), a Pietro Gesù aveva fatto una
promessa (Lc 5,10) e insieme a Giacomo e Giovanni avevano
abbandonato tutto e l’avevano seguito (Lc 5,11). Dalla folla dei
discepoli aveva scelto dodici apostoli, a loro aveva rivolto un
discorso sull’originalità della vita che era venuto a proporre (Lc 6, 20-
49). Essi avevano assistito a tutto ciò che Gesù aveva operato e
avevano collaborato a dar da mangiare a una folla numerosa (Lc
9,10-17). Pietro a nome di tutti risponde: “Tu sei il Messia di Dio”.
Per l’evangelista Luca è importante che Pietro abbia fatto questa
esplicita confessione di fede messianica già nella fase prepasquale
della vita di Gesù, anche se si tratta di una confessione di fede che
ignora il mistero della sua morte e risurrezione, perché Gesù non ha
ancora rivelato la natura della sua messianicità, ma è fondamentale
che il primo dei dodici abbia una fede certa nella messianicità anche
in questa prima fase del rapporto dei discepoli con Gesù. Proprio
perché la rivelazione della sua identità non è ancora conclusa, Gesù
proibisce severamente che se ne parli e approfitta invece per dire
loro che egli doveva soffrire molto, essere rifiutato dalle autorità
supreme del giudaismo, essere ucciso e poi risorgere il terzo giorno.
Tutto questo non per volontà degli uomini ma per un disegno
salvifico di Dio che i discepoli ora non possono capire, ma che il
Risorto rivelerà a suo tempo.
Gesù chiede ai discepoli che cosa pensino di lui perché l’identità di
Gesù costituisce la loro identità. Il discepolo di Gesù non è colui che
impara bene la sua dottrina, ma colui che ne condivide il destino, che
vive con Cristo e di Cristo. Per questo motivo Gesù, dopo aver
parlato di sé come di un Messia sofferente, rivolgendosi a tutti dice:
“Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la
sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). Da questo modo di
esprimersi Gesù manifesta di non avere alcuna intenzione di sedurre
gli ascoltatori con discorsi umanamente piacevoli per fare molti
proseliti: dichiara anzitutto che l’essere suo discepolo è una
decisione da prendere con grande libertà, che essere discepolo
significa seguirlo, e ciò comporta non la distruzione della propria
identità ma la rinuncia a un proprio progetto di vita, al proprio
orgoglio e egoismo e a quelle forme di morte che sono falsamente
scambiate per espressione di vita, e l’accoglienza del martirio
quotidiano da vivere con fedeltà e perseveranza “nella fede del Figlio
di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me”. Si tratta di
perdere la propria vita per amore del Signore Gesù che ci ha amati
per primo nella consapevolezza che l’uomo si realizza morendo, cioè
con il dono totale di sé alla persona amata sino a diventare ciò che si
ama. È questo il significato del paradosso pronunciato da Gesù: “Chi
vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita
per causa mia la salverà”; e Dio vuole che noi salviamo la nostra
vita. È venuto per questo e ci tiene a dire che per salvare se stessi
occorre seguire il suo esempio, e perdere la propria vita per amore di
Dio e dei fratelli. Donando la propria vita noi viviamo in pienezza;
perdere la propria “per Cristo” significa vivere in comunione piena
con il Signore, essere partecipi della sua sofferenza, ma anche della
sua gloria.
3. Il discorso di Gesù sulla modalità con la quale i suoi discepoli si
mettono al suo seguito diventa più comprensibile alla luce di quanto
dice Paolo nella seconda lettura della messa. I quattro versetti della
sua lettera ai Galati sono la conclusione del lungo ragionamento con
il quale l’apostolo ribadisce ai cristiani delle chiese della Galazia (e a
noi) quanto egli aveva affermato nel momento in cui aveva dato vita
alla nascita delle comunità cristiane e cioè che la salvezza si ottiene
mediante la fede e non attraverso l’osservanza della Legge e la
pratica della circoncisione: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in
Cristo Gesù (Gal 3,26). La fede ci pone in un rapporto personale con
Dio Padre che esclude la necessità della mediazione della Legge
quale pedagogo (Gal 3,24-25). Con il battesimo i cristiani sono messi
in relazione vitale e dinamica con la persona di Gesù che non solo li
accompagna per tutta la vita ma ne determina la qualità della vita
nuova ricevuta, la loro condizione di figli nel Figlio e la loro
destinazione futura. Cristo è la ragion d’essere della loro esistenza e
il modello di vita per tutti. Quanto accade a ogni singolo battezzato e
a tutti i battezzati, rende tutti i cristiani uguali e fratelli tra di loro e li fa
diventare un solo corpo in Cristo (1Cor 12,13) “Un solo uomo nuovo
(Ef 2,15) un solo essere personale con Cristo” (Gal 3,27). Le
differenze religiose, etniche, culturali e sessuali che erano prima del
battesimo restano anche dopo il battesimo ma queste non possono
essere e non debbono essere motivo di discriminazione e di
disuguaglianze che ledano la comune dignità di figli di Dio. È questo
il senso dell’espressione “Non c’è giudeo né greco, né schiavo né
libero, né maschio né femmina perché tutti siamo uno (eis) in Cristo
Gesù. Si tratta di un’unità non statica, ma dinamica da costruire nel
corso di tutta la vita con un impegno che è reso fecondo dall’azione
dello Spirito Santo ricevuto al battesimo e dalla grazia dell’Eucaristia,
sorgente inesauribile dell’unità della Chiesa. Dalla comune
appartenenza di tutti i cristiani battezzati a Cristo discendente di
Abramo, Paolo conclude che i pagani battezzati delle chiese della
Galazia sono beneficiari della promessa della benedizione fatta da
Dio ad Abramo e alla sua discendenza (Gal 3,16)

Commenti

Post più popolari