fr. Massimo Rossi, " Fede nella risurrezione finale"


XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO – 6 novembre 2016
2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16/17; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38
O Dio, Padre della vita e autore della risurrezione, davanti a te anche i morti vivono; fa’ che la parola
del tuo Figlio, seminata nei nostri cuori, germogli e fruttifichi in ogni opera buona, perché in vita e in morte siamo confermati nella speranza della gloria.
“Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per Lui.”
L’esempio portato dai sadducei, della donna presa in moglie da sette fratelli, rasenta il grottesco. Sarcasmo puro! altro che Charlie Hebdo, tristemente famoso per le sue vignette satiriche….   Irridere i morti è un atto grave, irriguardoso della vita e del dolore di chi ha perduto il marito, la moglie e, legittimamente vorrebbe sapere dov’è ora il suo compagno, la sua compagna…  se sono sereni, se soffrono, se un giorno li potranno riabbracciare…
Il Vangelo di questa XXXII Domenica – tra due settimane si conclude l’Anno Liturgico – affronta un tema assai delicato: la sorte dei (nostri) defunti; del resto, siamo a novembre, mese tradizionalmente dedicato alla memoria dei santi e dei morti.
Il Credo che recitiamo nelle solennità si conclude con la dichiarazione di fede nella risurrezione finale: noi che siamo cristiani annunciamo che, dopo la morte risorgeremo immortali;  il nostro corpo sarà come quello del Cristo risorto.  Non si tratta di ‘semplice’ risurrezione dello spirito, il quale non ha bisogno di risorgere, dal momento che non muore con il corpo…
Potrei continuare su questo registro per i prossimi dieci minuti, tenendo una bella (?) dissertazione di teologia dogmatica sulla resurrezione finale; bella quanto noiosa e a mio avviso anche inutile, perciò ve la risparmio.
Piuttosto vorrei sottolineare un aspetto della pagina di san Luca, il quale ci permette di stabilire una relazione tra le due ricorrenze che abbiamo appena celebrato il I° e 2 novembre:  le ultime righe del Vangelo tratteggiano l’identikit dei santi di Dio, coloro che sono giudicati degni della vita futura; capifila di questo innumerevole esercito di santi sono i tre maggiori patriarchi della fede:  Abramo, Isacco e Giacobbe, eroi di una straordinaria epopea raccontata nella Genesi, tre figure luminose, venerate come santi non solo dagli Israeliti, ma anche dalla Chiesa!
I nostri morti vivono il loro stesso destino di gloria!
I primi due giorni di novembre costituiscono, dunque, per noi un’occasione preziosa per esaltare la santità delle grandi figure della storia della salvezza, ma anche (la santità) dei nostri parenti, dei nostri amici, che dormono il sonno dei giusti e che arricchiscono le schiere dei Santi.
E veniamo al secondo punto cruciale del Vangelo di oggi, quello sul quale talora la fede stenta ad accordarsi coi sentimenti:  mi riferisco al quesito segnalato prima:  dopo la morte, ci sarà dato di incontrare i nostri cari che ci hanno già lasciato? La storiella della donna sposata ai sette fratelli è una provocazione di pessimo gusto, per toccare un aspetto delicato della nostra vita affettiva: le relazioni importanti, che siano i vincoli di sangue, come quello tra padre e figlio, tra fratello e sorella, oppure fondati su un patto solenne, come il matrimonio, valgono nell’aldiquà, in questa vita, non più nell’aldilà.
È un discorso delicato, dicevo, potrebbe urtare più di una sensibilità;  quasi che, il limite alla vita presente ridimensionasse, svilisse i legami affettivi…
“Ma, allora, se è così, se una volta varcata la soglia della vita, i legami si dissolvono, che senso ha stringerli qui, che senso ha impegnarvi l’intera esistenza, la quale, per quando lunga, è pur sempre a termine di finevita?”.
Mi è capitato di incontrare coppie di sposi, talmente innamorati, da dichiarare senza mezzi termini che il loro amore sarebbe durato in eterno…  Alla mia delicata puntualizzazione: “finché morte non vi separi”, ribadirono con forza: “No, marito e moglie in eterno!”.
Si può ben capire la delusione, addirittura lo sgomento di una moglie che, appena rimasta vedova, si sentisse dire ste cose dal prete:  che in paradiso non ci si cerca più, non ci importa più del partner, o dei figli, o dei genitori…
Suo malgrado, e forse anche nostro malgrado, l’unico fine della beatitudine eterna è la contemplazione del volto di Dio;  perché la contemplazione del volto di Dio è ciò che manca alla nostra felicità qui ed ora.
Parlo naturalmente da uomo di fede, a persone di fede, nella convinzione che vedere Dio faccia a faccia costituisca il desiderio più grande che possiamo nutrire in cuor nostro, e dunque, la carenza peggiore che possiamo patire, finché dimoriamo in questo esilio terreno.
Ricordate la domanda che l’apostolo Filippo aveva fatto al Signore durante la cena di addio:  “Signore, mostraci il Padre e ci basta.  Gli rispose Gesù:  Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?  Chi ha visto me ha visto il Padre.” (Gv 14,8-9).
La sera della risurrezione, apparso il Signore agli apostoli, Tommaso non era con loro.  Non avendolo dunque visto di persona, l’apostolo disse:  “Se non metto il dito nel foro dei chiodi e nel costato, non credo.”.  Otto giorni dopo, Gesù entrò di nuovo nel cenacolo e c’era anche Tommaso:  il Signore si rallegrò della ritrovata fede di Didimo; al tempo stesso dichiarò: “Beati coloro che pur non avendo visto, crederanno” (cfr. Gv 20,24-29).
Alla luce delle SS.Scritture, ma non solo, poter vedere Dio rappresenta la massima aspirazione di ogni uomo che abbia la percezione e la fede in un altrove…  in una vita che non finisce qui…
Questa che è una vera vocazione – poter vedere Dio – ciascuno di noi la realizzerà compiutamente una volta varcata la soglia del tempo e dello spazio.
E in questa visione noi vedremo tutto e tutti in Dio, come li vede Dio; e ameremo tutto e tutti in Dio, come li ama Dio.  Per definire questo modo di percepire la realtà da parte di Dio, i latini ricorrevano all’espressione ‘sub specie æternitatis’.
Allora, diventa possibile ‘recuperare’, in un certo senso, gli affetti perduti;  anzi, dichiaro che, nella vita eterna, li ameremo ancora meglio e di più!  di un amore più perfetto, che cioè  sa andare oltre l’egoismo e le imperfezioni individuali; quelle imperfezioni, quell’egoismo, che oggi fanno soffrire la coppia, la famiglia, la società, il mondo intero.


Fonte:www.paroledicarne.it

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