MONASTERO DI RUVIANO," Di chi sarà moglie nella risurrezione visto che tutti e sette l’hanno avuta in moglie?
TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Di chi sarà moglie nella risurrezione visto che tutti e sette l’hanno avuta in moglie?
2Mac 7, 1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2, 26-3,5; Lc 20, 27-38
Al cuore di questa liturgia c’è la fede nella risurrezione che, per noi discepoli di Cristo è il
cuore della fede. Dalla nostra fede nella risurrezione, e quindi dalla nostra concezione della morte, dipende tutto il senso del quotidiano; c’è poco da fare. Che senso avrebbe una vita che finisce nel nulla, nella polvere come esito ultimo e definitivo dell’esistenza di ogni uomo? Possibile che tutti i nostri sogni, tutti i nostri desideri di voli alti e luminosi, tutti i nostri amori, tutta la bellezza che sentiamo annidarsi dentro di noi, tutti i nostri legami, tutta la nostra sete di verità e di giustizia possano finire in un nulla senza remissione?
La grecità con il suo dualismo esasperato aveva pensato all’immortalità dell’anima; prima una forma di sopravvivenza umbratile e indifferenze (pensiamo alla scena dell’Odissea della discesa di Ulisse negli inferi e al suo incontro con la madre), poi col passare dei secoli giunse ad una sopravvivenza legata ai meriti e ai demeriti vissuti nella propria storia.
Il mondo biblico pure vive un’evoluzione: dalla negazione di un’oltretomba, alla percezione di uno sheol (gli inferi) indifferenziato, fino ad una retribuzione post-mortem; ma tutto è teso all’idea radicale della riserruzione; questa idea scaturisce direttamente dalla concezione unitaria dell’uomo, che la mentalità semitica ha nel profondo. L’uomo è il suo corpo e la vita dopo la morte non può che tendere a questa unità perché noi siamo questo.
Ai tempi di Gesù i sadducei (classe aristocratica sacerdotale da cui uscivano sempre i Sommi Sacerdoti, per lo meno dal 6 a.C. al 70 d.C.) negavano la risurrezione, come negavano tutte le realtà spirituali (per esempio gli angeli); la loro era una concezione molto materialistica della fede: tutto si risolveva qui ed il benessere qui è frutto della vita di pietà e di obbedienza alla Torah. Sono questi sadducei che, nell’Evangelo di questa domenica, Luca pone dinanzi a Gesù per provocarlo … con la loro razionalità cercano di mettere in difficoltà Gesù portando al ridicolo qualunque fede nella risurrezione. Evidentemente sanno che Gesù, come i farisei, loro “nemici”, ha fede nella risurrezione della carne. La via che usano è un esempio: una donna che sposa sette fratelli secondo la legge del “levirato” (cfr Dt 25,3ss; da “levir” che significa “cognato”).
Di chi sarà moglie nella risurrezione visto che tutti e sette l’hanno avuta in moglie?
Gesù è molto originale nella sua risposta; non percorre l’usuale metodo rabbinico che oppone parola a parola sullo stesso tema; non cita testi che alludano alla risurrezione, come il famosissimo testo di Giobbe in 10,11 o quello di Ezechiele in 37,8 o anche quello dal Secondo libro dei Maccabei che oggi costituisce la prima lettura. Niente di tutto questo. Gesù va invece, al cenro della Scrittura, ad un testo che ha al cuore Dio e la sua rivelazione. E’ il testo del Roveto ardente in Esodo 3.
Per Gesù la risurrezione non può essere ridotta ad una questione di esegesi e di dispute tra diversi pensieri, opinioni o diverse scuole. Per cogliere la verità della risurrezione si deve andare a contemplare Dio ed il suo amore fedele. Gesù, infatti, parte dalla fedeltà di un Dio che si rivela a Mosè come il Dio dei Patriarchi che chiama per nome: Abramo, Isacco e Giacobbe. La “prova” della risurrezione (se di “prova” si può parlare!) è Dio stesso ed è il legame che Lui ha voluto creare con l’uomo. Dio è pienezza di vita ed ha voluto condividere questa vita con l’uomo al quale chiede di conoscerlo, di servirlo e di amarlo. Questa creatura straordinaria che è l’uomo, a tal punto legata a Dio, non può cessare di esistere con la morte. Una creatura così partecipa della pienezza della vita; una pienezza di vita che non può non toccare tutto ciò che l’uomo è, tutte le sue fibre, tutto il suo corpo. L’uomo, così ci dice Gesù, oltre il buio passaggio della morte, è chiamato all’eternità.
Per Gesù la certezza della risurrezione riposa in Dio stesso e nel suo amore fedele con cui si è voluto legare a noi uomini fin dall’ “in-principio”. Fin dalla creazione questa è stata la via di Dio per l’uomo; all’epoca dei Patriarchi, ci suggerisce Gesù con la sua citazione, questa fedeltà era già consegnata all’uomo; non importa che gli uomini non ne avessero colto tutte le sfumature.
Certamente non è un caso che ai Sadducei (che per le loro dottrine si rifacevano alla sola Torah) Gesù opponga un testo che citi i Patriarchi e che è rivelato a Mosè, “autore” della Torah.
L’Evangelista, che scrive il racconto di questa disputa con la brillante risposta di Gesù, in più ha una coscienza che in quella disputa non poteva entrare: la Croce e la Risurrezione di Gesù! Nella Croce e nella Risurrezione quell’amore fedele di Dio risplendette in tutta la sua ampiezza … il Dio narrato sulla Croce e nella Risurrezione di Gesù è fedele all’uomo tanto da scendere nelle profondità buie ed abissali della sua morte; come credere ancora alla morte dopo la sua vittoria?
I discepoli di Gesù possono dire, all’indomani della Pasqua, “vivo ma non vivo più io, ma Cristo vive in me” (cfr Gal 2,20) e l’uomo, a cui è data questa incredibile possibilità, può mai finire nella morte?
Certo, la risurrezione, dinanzi alla fredda ragione, resta indimostrabile ed inverosimile … è il legame d’amore che lega il credente a Gesù che impone, dall’interno, questa fede. Quel Gesù che è sceso agli inferi a cercarci nella nostra morte e che da lì è risorto per l’amore fedele del Padre suo, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, un giorno ci porterà con Lui, attraversando col suo amore fedele la nostra morte, verso la vita senza fine che afferrerà tutta la nostra carne! Nel Quarto Evangelo Gesù dice con ferma chiarezza che dove Lui sarà, sarà anche il suo discepolo, il suo amico (cfr Gv 12,26; 14,3).
Che consolazione! Lui verrà e ci porterà con sé. Il discepolo ha questa speranza: qualunque cosa succeda noi apparteniamo a Gesù. “Chi potrà separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù?”(cfr Rm 8,38). Lui ha legato per sempre gli uomini a sé … e se noi discepoli lo sappiamo e lo sperimentiamo già qui, noi sappiamo pure che questo si dilata a tutti gli uomini, quelli di ieri, quelli di oggi e quelli di domani, a quelli che non lo hanno conosciuto o non lo conoscono, a quelli a cui abbiamo impedito l’accesso alla fede con la nostra poca credibilità … a tutti …
Scriveva von Balthasar: “Noi dobbiamo sperare per tutti” e questo perché contemporaneamente crediamo per tutti ed amiamo per tutti.
Il Salmo 136 canta con meravigliosa monotonia: “Eterno è il suo amore” … dunque se il suo amore è così, se il suo amore è eterno, noi che siamo amati dureremo, con Lui, nei secoli dei secoli.
Fonte:www.monasterodiruviano.it/
Di chi sarà moglie nella risurrezione visto che tutti e sette l’hanno avuta in moglie?
2Mac 7, 1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2, 26-3,5; Lc 20, 27-38
Al cuore di questa liturgia c’è la fede nella risurrezione che, per noi discepoli di Cristo è il
cuore della fede. Dalla nostra fede nella risurrezione, e quindi dalla nostra concezione della morte, dipende tutto il senso del quotidiano; c’è poco da fare. Che senso avrebbe una vita che finisce nel nulla, nella polvere come esito ultimo e definitivo dell’esistenza di ogni uomo? Possibile che tutti i nostri sogni, tutti i nostri desideri di voli alti e luminosi, tutti i nostri amori, tutta la bellezza che sentiamo annidarsi dentro di noi, tutti i nostri legami, tutta la nostra sete di verità e di giustizia possano finire in un nulla senza remissione?
La grecità con il suo dualismo esasperato aveva pensato all’immortalità dell’anima; prima una forma di sopravvivenza umbratile e indifferenze (pensiamo alla scena dell’Odissea della discesa di Ulisse negli inferi e al suo incontro con la madre), poi col passare dei secoli giunse ad una sopravvivenza legata ai meriti e ai demeriti vissuti nella propria storia.
Il mondo biblico pure vive un’evoluzione: dalla negazione di un’oltretomba, alla percezione di uno sheol (gli inferi) indifferenziato, fino ad una retribuzione post-mortem; ma tutto è teso all’idea radicale della riserruzione; questa idea scaturisce direttamente dalla concezione unitaria dell’uomo, che la mentalità semitica ha nel profondo. L’uomo è il suo corpo e la vita dopo la morte non può che tendere a questa unità perché noi siamo questo.
Ai tempi di Gesù i sadducei (classe aristocratica sacerdotale da cui uscivano sempre i Sommi Sacerdoti, per lo meno dal 6 a.C. al 70 d.C.) negavano la risurrezione, come negavano tutte le realtà spirituali (per esempio gli angeli); la loro era una concezione molto materialistica della fede: tutto si risolveva qui ed il benessere qui è frutto della vita di pietà e di obbedienza alla Torah. Sono questi sadducei che, nell’Evangelo di questa domenica, Luca pone dinanzi a Gesù per provocarlo … con la loro razionalità cercano di mettere in difficoltà Gesù portando al ridicolo qualunque fede nella risurrezione. Evidentemente sanno che Gesù, come i farisei, loro “nemici”, ha fede nella risurrezione della carne. La via che usano è un esempio: una donna che sposa sette fratelli secondo la legge del “levirato” (cfr Dt 25,3ss; da “levir” che significa “cognato”).
Di chi sarà moglie nella risurrezione visto che tutti e sette l’hanno avuta in moglie?
Gesù è molto originale nella sua risposta; non percorre l’usuale metodo rabbinico che oppone parola a parola sullo stesso tema; non cita testi che alludano alla risurrezione, come il famosissimo testo di Giobbe in 10,11 o quello di Ezechiele in 37,8 o anche quello dal Secondo libro dei Maccabei che oggi costituisce la prima lettura. Niente di tutto questo. Gesù va invece, al cenro della Scrittura, ad un testo che ha al cuore Dio e la sua rivelazione. E’ il testo del Roveto ardente in Esodo 3.
Per Gesù la risurrezione non può essere ridotta ad una questione di esegesi e di dispute tra diversi pensieri, opinioni o diverse scuole. Per cogliere la verità della risurrezione si deve andare a contemplare Dio ed il suo amore fedele. Gesù, infatti, parte dalla fedeltà di un Dio che si rivela a Mosè come il Dio dei Patriarchi che chiama per nome: Abramo, Isacco e Giacobbe. La “prova” della risurrezione (se di “prova” si può parlare!) è Dio stesso ed è il legame che Lui ha voluto creare con l’uomo. Dio è pienezza di vita ed ha voluto condividere questa vita con l’uomo al quale chiede di conoscerlo, di servirlo e di amarlo. Questa creatura straordinaria che è l’uomo, a tal punto legata a Dio, non può cessare di esistere con la morte. Una creatura così partecipa della pienezza della vita; una pienezza di vita che non può non toccare tutto ciò che l’uomo è, tutte le sue fibre, tutto il suo corpo. L’uomo, così ci dice Gesù, oltre il buio passaggio della morte, è chiamato all’eternità.
Per Gesù la certezza della risurrezione riposa in Dio stesso e nel suo amore fedele con cui si è voluto legare a noi uomini fin dall’ “in-principio”. Fin dalla creazione questa è stata la via di Dio per l’uomo; all’epoca dei Patriarchi, ci suggerisce Gesù con la sua citazione, questa fedeltà era già consegnata all’uomo; non importa che gli uomini non ne avessero colto tutte le sfumature.
Certamente non è un caso che ai Sadducei (che per le loro dottrine si rifacevano alla sola Torah) Gesù opponga un testo che citi i Patriarchi e che è rivelato a Mosè, “autore” della Torah.
L’Evangelista, che scrive il racconto di questa disputa con la brillante risposta di Gesù, in più ha una coscienza che in quella disputa non poteva entrare: la Croce e la Risurrezione di Gesù! Nella Croce e nella Risurrezione quell’amore fedele di Dio risplendette in tutta la sua ampiezza … il Dio narrato sulla Croce e nella Risurrezione di Gesù è fedele all’uomo tanto da scendere nelle profondità buie ed abissali della sua morte; come credere ancora alla morte dopo la sua vittoria?
I discepoli di Gesù possono dire, all’indomani della Pasqua, “vivo ma non vivo più io, ma Cristo vive in me” (cfr Gal 2,20) e l’uomo, a cui è data questa incredibile possibilità, può mai finire nella morte?
Certo, la risurrezione, dinanzi alla fredda ragione, resta indimostrabile ed inverosimile … è il legame d’amore che lega il credente a Gesù che impone, dall’interno, questa fede. Quel Gesù che è sceso agli inferi a cercarci nella nostra morte e che da lì è risorto per l’amore fedele del Padre suo, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, un giorno ci porterà con Lui, attraversando col suo amore fedele la nostra morte, verso la vita senza fine che afferrerà tutta la nostra carne! Nel Quarto Evangelo Gesù dice con ferma chiarezza che dove Lui sarà, sarà anche il suo discepolo, il suo amico (cfr Gv 12,26; 14,3).
Che consolazione! Lui verrà e ci porterà con sé. Il discepolo ha questa speranza: qualunque cosa succeda noi apparteniamo a Gesù. “Chi potrà separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù?”(cfr Rm 8,38). Lui ha legato per sempre gli uomini a sé … e se noi discepoli lo sappiamo e lo sperimentiamo già qui, noi sappiamo pure che questo si dilata a tutti gli uomini, quelli di ieri, quelli di oggi e quelli di domani, a quelli che non lo hanno conosciuto o non lo conoscono, a quelli a cui abbiamo impedito l’accesso alla fede con la nostra poca credibilità … a tutti …
Scriveva von Balthasar: “Noi dobbiamo sperare per tutti” e questo perché contemporaneamente crediamo per tutti ed amiamo per tutti.
Il Salmo 136 canta con meravigliosa monotonia: “Eterno è il suo amore” … dunque se il suo amore è così, se il suo amore è eterno, noi che siamo amati dureremo, con Lui, nei secoli dei secoli.
Fonte:www.monasterodiruviano.it/
Commenti
Posta un commento