Padre Paolo Berti, “... perché hai dubitato?”
Mt 14,22-33
“... perché hai dubitato?”
Omelia
Elia, dopo un lungo cammino nel deserto, giunse al monte Oreb, che è un altro nome del monte Sinai.
Era fuggito di fronte a Gezabele, dopo aver trionfato sui falsi profeti. Elia si sentiva debole, solo, vile anche, ma ecco che Dio sul monte Oreb lo fortificò mostrandogli un infinitesimo della sua onnipotenza. Il monte venne squassato da un vento impetuoso, capace di spezzare gli spuntoni rocciosi. Poi un terremoto scosse il monte e fulmini lo colpirono. Elia capì: Dio poteva distruggere con un nonnulla coloro che si davano ai falsi profeti e li pagavano perché dicessero menzogne al popolo. Nessun uomo, nessun potere terreno avrebbe potuto resistere alla sua potenza.
Poi, un vento leggero accarezzò il monte ed Elia si sentì invitato ad uscire dalla caverna nella quale era entrato per passarvi la notte. Elia uscì umile dalla caverna. Si coprì il volto in omaggio alla presenza di Dio. Era diventato un uomo nuovo; non più pauroso della propria debolezza, non più dubbioso circa la capacità di Dio di vincere i suoi avversari. Elia si era convinto che i metodi di Dio non passano attraverso l'annientamento dell’uomo, ma attraverso percorsi di misericordia. Se Dio attende, se non colpisce i suoi nemici subito, è perché aspetta il loro pentimento. Elia non fu più l’impetuoso uomo che aveva sgozzato di sua mano i trecento falsi profeti, ma divenne un uomo umile, che serve il misericordioso disegno di Dio.
Anche i discepoli fecero l’esperienza della potenza di Dio sugli elementi della natura, su di una barca in balia delle onde. La loro capacità di naviganti si era azzerata e il peggio si avventava su di loro; poi la paura di essere ammattiti. Videro Gesù che camminava sulle acque e temettero che fosse un’illusione, un fantasma, di essere vittime di un’allucinazione. Paura di essere finiti nell’irreale, fuori dalla realtà. Pietro era tanto spaventato dall’idea di essere finito nell’allucinazione che chiese a Gesù una prova di verifica della sua normalità: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Pietro cominciò a camminare sulle acque; non era un’allucinazione la sua: era veramente Gesù. Ma subentrò una nuova paura, quella del vento che spazzava le acque alzando grandi onde. E questa volta la paura veniva solo dalla poca fede: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Pietro dovette interrogarsi: “Perché hai dubitato?”. Un interrogativo che dobbiamo porci anche noi tutte le volte che il vento delle prove ci raggiunge per impaurirci, e ci riesce. La risposta deve essere onesta, vera. La risposta esige umiltà, rifiuto dei depistaggi dell’orgoglio. Dobbiamo dirci chiaramente che la crisi, il turbamento assecondato, ha come origine la poca fede. La fede non è un’irrealtà: è adesione alla realtà rivelata da Dio, è adesione alla verità. Ci è parso che la fede fosse una realtà esterna a quella situazione mentre doveva essere la forza per reggere quella situazione. Proprio nella prova si vede a che punto è la nostra fede in Cristo.
I discepoli al vedere calmarsi le acque di fronte ad un cenno di Gesù dovettero dire: “Davvero tu sei Figlio di Dio”. Già credevano i discepoli che Gesù era il Figlio di Dio, ma ora dicono: “Davvero”.
La fede non può mai cessare di crescere. Ogni volta che crediamo, che rimaniamo fermi nelle prove, e ci vediamo soccorsi da Dio, la nostra fede si approfondisce di una gioiosa conferma che ci rende capaci di sostenere nuove prove. I discepoli credettero ancor più dopo il prodigio, ma erano chiamati a credere anche prima che ci fosse prodigio, perché c'era Gesù.
Tanti attacchi del mondo ha la nostra fede, oggi più di ieri, ma ha anche tante conferme splendide della fedeltà di Dio. Il mondo preme come un vento impetuoso su di noi per sollevare onde di turbamento nei nostri cuori, per portarci lontano dalla fede, per farci accettare letture false della vita; si lancia su di noi per seminare incertezze, inoculare dubbi; ma, fratelli e sorelle, Dio ci sostiene sempre. E dobbiamo dirci che se la nostra fede vacilla non è colpa se non di noi stessi.
Ci viene da rimanere scoraggiati di fronte ad una cristianità che non ci appare più trionfante come nel passato. Ci viene da fare come Elia che fuggì da Gezabele, cercando di nascondere la sua viltà con un’umiltà di comodo dicendo che non era migliore dei suoi padri e che, perciò, Dio si doveva scegliere un altro, uno migliore di lui.
Ma Dio non abbandonò Elia alla viltà. Un angelo gli intimò di camminare verso l'Oreb e gli diede forza con un pane. Non solo gli disse di camminare, ma anche gli diede il cibo per farlo.
Il servo, o se vogliamo usare il termine di dipendente, deve lavorare, ma per lavorare deve essere posto nelle condizioni di poter lavorare, deve avere cibo, formazione, casa. Il datore di lavoro deve far questo, altrimenti non può pretendere che l’impiegato, o l’operaio, lavorino. Così Dio. Noi siamo suoi servi, servi del suo disegno di misericordia. Servi che sono anche suoi figli adottivi, che lo possono chiamare Padre. Servi che vengono nutriti di un pane di vita che è il Corpo del Signore.
Il vento delle prove non può trovarci come canne sbattute dal vento, ma saldi nella fede nella speranza nella carità. Paolo di fronte alle persecuzioni non si sgomentava. Non si scagliava contro i suoi avversari, esecrandoli, maledicendoli. No, Paolo, non considerava nemici quelli che lo odiavano, anche se suoi nemici lo erano, ma i nemici li vedeva nelle forze oscure che li agitavano contro di lui (Ef 6,12): “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”. Paolo soffriva degli attacchi dei suoi nemici, ma non tanto per lo sgomento morale, per le sofferenze fisiche, ma perché li vedeva nell'errore. Di fronte ai Giudei che lo perseguitavano questo era il suo più grande dolore (Rm 9,1s): “Dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli”.
Fratelli e sorelle, il dolore di Paolo è il dolore della carità. Ma l'amore ha sempre in sé la gioia dello stesso amare. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.
Fonte:http://www.perfettaletizia.it
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