FIGLIE DELLA CHIESA, Lectio I Domenica di Quaresima

I Domenica di Quaresima
 Ven, 09 Feb 18  Lectio Divina - Anno B

Ambientazione della pericope evangelica
La pericope evangelica, che la liturgia ci propone per questa domenica, è costituita da quattro versetti.
I primi due (vv.12-13) concludono il prologo del Vangelo di Marco (vv. 1-13). Questo primo gruppo letterario, molto breve, non ha funzione puramente introduttiva. Il suo contenuto narrativo e dottrinale, infatti, non prepara soltanto il ministero pubblico di Gesù, ma segna pure l’inizio del Vangelo e fa già parte di esso. Nel testo è facile distinguere il primo versetto dai rimanenti, i quali, a loro, volta, possono essere così divisi:
(1,2-8) predicazione del Battista;
(1,9-11) battesimo di Gesù;
(1,12-13) tentazione nel deserto.
Gli altri due versetti della pericope (vv. 14-15) costituiscono un’unità a sé, formando un ponte tra il prologo e il ministero pubblico di Gesù che prenderà inizio subito dopo. Concludono il prologo, ricapitolandolo, e introducono il ministero pubblico, dandone una visione d’insieme e riassumendolo.

Spiegazione della pericope evangelica
v.12 - Il racconto delle tentazioni inizia con il noto kai enthys, e subito, che quindi lo lega ai vv. 10-11. Il racconto marciano è telegrafico in confronto all’elaborato dialogo della versione di Mt 4,1-11 e Lc 4,1-13. La potenza dello Spirito è sottolineata dall’uso del verbo “sospingere” (ekballein). Sotto la guida dello Spirito, Gesù si reca nel deserto. Quanto avviene in quel luogo risponde all’impulso di Dio. Soggetto dell’azione è lo Spirito che poco prima era sceso su Gesù. Alcuni commentatori pensano si tratti del deserto di Giuda che scendeva verso la depressione del Giordano. Il narratore però non ritiene importante fornire una precisa indicazione geografica.

v.13 - Per l’uomo della Bibbia, il deserto è lo spazio di ricordi e di esperienze del passato. Il deserto è il luogo dell’incontro con Dio e della preghiera (cfr Os 2,16), ma anche della penitenza e della prova. Non si dimentichi, poi che in vari testi biblici è presentato anche come il luogo in cui Satana va vagando (Mt 12,43; Lc 11,24; Tb 8,3; Is 13,21; 34,14). Soprattutto, però, si deve tenere presente l’esperienza unica di Israele, che nel deserto aveva ricevuto la sua formazione, tentato in qualche modo da Dio e saggiato nella sua fedeltà all’alleanza sinaitica, e tentatore a sua volta di Dio nell’esigere da lui continui interventi miracolosi (cfr Dt 8,2-6; Sal 94[95], 8-10). Il deserto, inoltre, riecheggia l’inizio del Vangelo (cfr 1,3-4). La giustapposizione del Battesimo di Gesù con la sua permanenza nel deserto coglie bene il doppio aspetto del deserto come luogo della rivelazione e dello sposalizio con Dio e come luogo di messa alla prova.
Gesù rimane nel deserto quaranta giorni. Questo numero simbolico possiede molti esempi nella tradizione biblica. Oltre ai quarant’anni passati da Israele nel deserto (cfr Es 16,35; Nm 14,34; Dt 9,7), il numero ci ricorda i quaranta giorni del diluvio (cfr Gn 7,40), i quaranta giorni e le quaranta notti in cui Mosè rimase col Signore, digiunando e pregando, sul monte Sinai (Es 34,28), i quaranta giorni e le quaranta notti in cui Elia, rinvigorito dal cibo dell’angelo, cammina per il deserto verso il monte di Dio, l’Oreb (1Re 19,1-8).

Nel conciso racconto di Marco, non si accenna a un digiuno di Gesù. La tentazione da parte di Satana non avviene al termine del soggiorno nel deserto, ma durante tutto il periodo. Anche l’uso del participio presente per esprimere tentato sembra doversi intendere nel senso che Gesù fu provato lungo tutti i quaranta giorni da Satana, che in ebraico significa propriamente avversario, nemico (cfr 1Re 11,14.23). Il genere delle tentazioni non è precisato; ma l’accenno dell’evangelista fa presagire ugualmente che la vita di Gesù sulla terra sarà tutta punteggiata da un continuo combattimento contro le potenze del male, impersonate appunto da Satana, il nemico (3,22-27).

Nella Sacra Scrittura, il termine “tentazione” può significare sostanzialmente due cose: la prova alla quale viene sottoposto un uomo, posto in una situazione dolorosa (cfr il destino di Giobbe), oppure l’istigazione al peccato. Quantunque Marco non descriva dettagliatamente la tentazione di Gesù, tenendo conto del racconto riferito da Matteo e Luca, si può supporre che essa abbia una motivazione cristologica, che sia riferita all’esercizio dell’ufficio messianico. Prima che Gesù prenda possesso della sua carica messianica, viene tentato dal “nemico” in relazione a questa. Gesù viene messo davanti a un bivio e deve fare necessariamente la sua scelta: seguire la via facilissima della potenza terrena, oppure quella durissima dell’umiltà e del dolore, segnalati dal Padre. Satana gli propone la prima, credendo di farne un anticristo e un suo alleato; Cristo, invece, sceglie la seconda e la percorre fino in fondo, considerando come “tentazione” tutto ciò che tenterà di allontanarlo dal suo proposito. Così egli si comporterà con Pietro che tenta di dissuaderlo dal suo destino doloroso (cfr Mc 8,33; Mt 16,23). Così gli evangelisti presentano i vari tentativi fatti dai Giudei per provare chi egli sia, chiedendogli ripetutamente un “segno dal cielo” (Mc 8,11; Mt 12,38; Lc 11,16.29); tentativi che Gesù respinge sempre, sistematicamente. Così tanto Gesù quanto gli apostoli possono considerare l’incontro con i nemici nel Getsemani come l’ora suprema della prova e della tentazione (cfr Mc 14,38; Mt 26,41; Lc 22,46). Considerate in questo modo, le tentazioni nel deserto non sono che l’inizio di tutta una serie. Per cui è detto bene nell’Imitazione di Cristo: “Tutta la vita di Gesù fu una croce e un martirio”; la cui conclusione è segnata dalla passione, che è l’ora del trionfo apparente di Satana e dei suoi (cfr Gv 14,30; Lc 22,53). La risurrezione segna l’ora della vittoria di Gesù; è l’evento con cui dimostra chi veramente egli sia, e quindi l’unico “segno dal cielo” che egli poteva e voleva offrire, avendo scelto di seguire la via del sacrificio. Questa conclusione doveva apparire chiara già ai suoi discepoli dopo l’esperienza della Pasqua. Tuttavia questi non vollero lasciar cadere l’episodio delle tentazioni, non solo perché doveva costituire la chiave interpretativa dell’intera vita terrena di Gesù, ma anche perché essi stessi trovavano nell’episodio un motivo di incoraggiamento nelle loro difficoltà.

L’annotazione: “era con le fiere” è esclusiva di Marco. Deve essere interpretata come un parallelismo con Adamo nel paradiso terrestre. Questi viveva nell’Eden in compagnia degli animali e fu tentato dal serpente, il quale in seguito fu messo in relazione con il Demonio o identificato con esso. Quello che Marco evoca è un ritorno a quella pace, serena e tranquilla, con tutti gli esseri della natura, che Adamo godeva prima del peccato. È la pace di chi è vicino a Dio e gode della sua protezione. È attestata nella prima creazione (cfr Gn 1,28; 2,19-20) e rimane la speranza della nuova creazione (cfr Is 11,6-9; 65,24-25; Bar 73,6). Con questo non si vuole indicare solamente che Gesù superò la tentazione di Satana, ma anche che con lui inizia il tempo escatologico. Egli ha anticipatamente vinto Satana, egli lo vincerà in maniera definitiva (cfr 2Ts 2,3-12; Ap 19,19-20; 20,2.10). Anche il servizio degli angeli non avviene al termine dei quaranta giorni, ma per tutto il periodo durante il quale Gesù permane nel deserto. Quanto qui descritto supera ciò che viene cantato nel Sal 92(91).

Il verbo greco diakonèo utilizzato per indicare il servizio degli angeli può avere il significato particolare di “apparecchiare il cibo, servire a mensa” e allora indicherebbe che Gesù viene servito dopo aver digiunato e dopo che il demonio si è servito proprio di questo pretesto per tentarlo (come in Mt e Lc). Oppure può avere il senso più generico di assistere, stare presso qualcuno per prestargli servizi, e allora il testo deve interpretarsi nel senso che gli angeli erano presso Gesù, gli facevano compagnia e gli prestavano continuamente i loro servizi. Anche Elia (cfr 1Re 19,8) viene servito dagli angeli. In qualunque caso, il particolare sta ad indicare una singolarissima assistenza da parte di Dio, il quale non permette che il suo eletto soccomba alla fame, alla tentazione o qualunque altro male; ma indica pure la superiorità e la vittoria di Gesù su Satana, vittoria che da Marco non è ricordata esplicitamente.

vv.14-15 - Nello schema di Marco, ripreso poi dagli altri due Sinottici, Gesù, dopo le tentazioni, si trasferisce subito in Galilea. Questo piano narrativo, però, è più artificioso che reale, in quanto lo stesso evangelista ci fa intendere di aver tralasciato alcune cose, quando ricollega l’andata di Gesù in Galilea all’imprigionamento di Giovanni (v. 14a), senza essersi curato di indicarne il tempo e di precisarne i particolari. I vv. 14-15 costituiscono un sommario della predicazione di Gesù. Alla sintesi generale del v. 14 (vangelo di Dio) segue la spiegazione letterale nel v. 15. Il v. 14 è simile al v. 4. Il discorso letterale del v. 15 è espresso in un distico: la vicinanza del Regno di Dio sta al compimento del tempo come la fede alla conversione.
Gesù si presenta non come un maestro che insegna, ma come un araldo che annuncia la verità che Dio vuole sia trasmessa. Ciò che Cristo predica e proclama è una buona novella: anzi la buona novella per eccellenza, la quale viene da Dio ed ha per oggetto l’avvento della salvezza, che Dio offre agli uomini. Benché riferite in discorso diretto, le parole attribuite a Gesù sono chiaramente un sommario di quanto egli doveva dire.

Il tempo è compiuto: la comprensione di questa frase risulta possibile solamente se si coglie la differenza tra chronos (spazio di tempo, durata) e il termine kairos, qui usato (il tempo stabilito, il momento favorevole). Il tempo di cui il testo parla, quindi, non è un qualunque momento nella successione cronologica, ma, secondo la forza del termine greco, il momento opportuno o prestabilito, che suppone un prima, fatto di attesa. Con il verbo è compiuto, al perfetto greco, si vuole significare che questo periodo di attesa è finito, e che è iniziato un periodo nuovo, la cui realtà attesa è ormai un fatto concreto alla portata di tutti. Dietro questa frase c’è tutta la fede della Chiesa primitiva nel compimento delle profezie messianiche e nella pienezza escatologica, in cui Cristo ci ha introdotto con la sua venuta.

Il Regno di Dio è giunto: il perfetto greco, ènghiken, si può tradurre sia con “è vicino, si è avvicinato”, sia con “è giunto, è arrivato, è presente”. Per cui possiamo dire che il Regno di Dio è giunto, per il fatto che Gesù è venuto ed ha iniziato il suo ministero; ma in un certo senso si può dire che è vicino, in quanto ancora non riconosciuto e accettato dalla maggior parte degli uomini. Dio si è avvicinato agli uomini, fa sentire la sua presenza nell’opera salvifica di Gesù; ma spetta agli uomini rispondere alla chiamata e sottomettersi docilmente alla sua sovranità, facendo ciò che Gesù domanda con in due imperativi: convertitevi e credete.

Convertitevi: si ricollega direttamente al battesimo di penitenza predicato da Giovanni (cfr v.4). Secondo l’etimologia del verbo greco, metanoèo, non si tratta semplicemente di riconoscere i propri errori, ma di un cambiamento radicale dell’uomo, che è anche, secondo la predicazione dei profeti, un ritorno a Dio, da cui si era allontanato con il peccato (cfr 3,12.14.22; 8,6; 18,8; Os 14,2-3; Gl 2,12-13).

Credete al Vangelo: la fede è l’atto percettivo della conversione. Essa, però, non consiste in una semplice adesione intellettuale all’oggetto della buona novella, ma deve essere una convinzione profonda che pone il suo fondamento sulla natura soprannaturale e rivelata del vangelo e, quindi, sulla persona stessa del Cristo che l’annuncia. Richiede soprattutto speranza: la fiducia che Dio è dalla nostra parte, la convinzione che Dio ha cura di noi e guida i nostri passi, e la persuasione che Dio vuole che noi diventiamo partecipi della vita eterna assieme al Cristo risorto nella pienezza del Regno di Dio.

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