P. Marko Ivan Rupnik, Commento Domenica delle Palme

Domenica delle Palme
Fil 2,6-11
Congregatio pro Clericis

Partiamo dal testo della lettera ai Filippesi, intensamente cristologico e perciò ottimo sfondo alla riflessione della liturgia di oggi.



All’inizio del versetto 6 Paolo crea una antitesi tra la forma di Dio (morphē theou) e la forma del servo (morphē doulou). Il termine morphē viene usato solo qui, due volte ma solo in questo passaggio.

Avrebbe potuto usare doxa, gloria, ad esprimere che Lui è la gloria di Dio, la manifestazione di Dio ma questo apparirà solo alla fine dell’inno, quando liturgicamente viene acclamato Cristo come gloria di Dio Padre.

Paolo non usa neppure eikon, icona, immagine, perché è un termine che dovunque si trova ha un’accezione statica, rimanda a qualcosa di stabile. Morphē è invece una forma che già in sé stessa annuncia un dinamismo (cf Fil 2,7), tanto è vero che nel greco filosofico si usa morphē per dire la forma dell’idea nella materia, che è sempre dinamica, non è statica, cambia. Paolo in 2Cor 3,18 dice che noi saremo trasformati – usa la radice morphē e dunque esprime un dinamismo, un passaggio - nell’immagine, cioè nell’icona, una cosa stabile. Il modo di esistere di Cristo come Figlio di Dio già include l’accoglienza dell’uomo. In questo passaggio c’è una drammatica kenosis, una spogliazione della forma di Dio come gloria e un assumere una forma di esistere da servo, ma sempre da Figlio di Dio. Cristo anche come uomo non vive la sua condizione divina a suo vantaggio, come testimoniano molto bene i racconti sulle tentazioni nel deserto (cf Lc 4,1-13) ma vive la sua figliolanza e la sua divinità a favore dell’uomo, a favore dell’umanità che Lui ha assunto: “Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Questo passaggio kenotico in cui Cristo si umilia e l’uomo si arricchisce lo compie perché mandato dal Padre. È totalmente uno con il Padre (cf Gv 10,30), anzi Lui farà tutto così che “il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Il suo amore filiale lo porta a essere “obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Rinuncia alla condizione di Dio secondo Dio, e vive la condizione di Dio secondo gli uomini. Obbedire vuol dire affidarsi all’altro, avere l’epicentro della relazione nell’altro. Adamo ha creduto al tentatore, si è convinto che non obbedire vuol dire vivere e si è scoperto avvelenato dalla morte. Adesso il Figlio di Dio obbedisce per morire, per poter incontrare Adamo morto perché solo in questo modo Adamo può recuperare la vita. Cristo obbedisce perché totalmente consegnato al Padre e questa relazione ridarà la vita ad Adamo che pensava di salvare sé stesso non obbedendo. Obbedire per Adamo era morire, la paura della morte lo spingeva a salvare sé stesso, e salvare se stesso significava non obbedire a Dio ma credere in un proprio progetto di divenire (cf Gn 3,5 – diventerai, diventerete). Il tentatore è riuscito a convincere Adamo che se vive con Dio, Dio gli impedirà “di diventare”. Allora ti devi affermare ed esaltare da solo. Invece in Cristo vediamo che è il Padre ad esaltarlo (Fil 2,9). Non solo, ma chi vive la vita come dono di sé in una relazione d’amore del Figlio non può essere ucciso, non può essere distrutto. “Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18).

Non è Cristo che si esalta, Paolo è molto preciso nell’uso dei termini, il Figlio “umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2,8). Per questo allora l’umiliazione è opera del Figlio mentre l’esaltazione è opera del Padre (cf 2,9). Perciò l’umiliazione è la forma attiva del Figlio, l’esaltazione è passiva.

Quando l’uomo si esalta da solo compie un suicidio spirituale, perde la vita che vuole affermare (cf Gv 12, 25). Noi siamo chiamati a partecipare nel Figlio a vivere la nostra vita come dono, come kenosi, e l’epilogo della kenosi è l’azione del Padre che risuscita.

Nella Passione di Cristo è interessante osservare come la paura per sé stessi gioca il ruolo determinante. I potenti, sia civili che religiosi, vogliono uccidere Cristo ma di per sé hanno paura del popolo (cf Gv 9,22; Mc 12,12; Lc 20,19), anche Pilato (cf Gv 19,18) ha paura per sé stesso, ma la paura per sé stessi è proprio la prima conseguenza del peccato (cf Gn 3,10). Il passaggio dalla schiavitù alla libertà riguarda esattamente la paura, si è schiavi finché si ha paura per sé. Mosè quando stava di fronte al mar Rosso con il suo popolo e l’esercito del faraone alle spalle sentendo il popolo urlare dalla paura doveva prima di tutto rassicurare il popolo: “Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi, perché gli egiziani che oggi vedete non li vedrete mai più!” (Es 14,13). Non serve attraversare il Mar Rosso, liberarsi dall’Egitto ma rimanere schiavi di sé stessi. Per 40 anni dovranno camminare nel deserto per liberarsi dalla paura per sé e liberarsi di Dio.

Per questo motivo l’attesa del Messia ha creato delle immaginazioni sulle coordinate di questo mondo che possono rassicurare l’io, che possono rafforzarlo in modo tale da allontanare le paure per sé e sentirsi rassicurato. Come sappiamo bene da tante fonti, questa attesa si concentrava intorno al restauro del regno di Davide come una forte affermazione del popolo dell’alleanza. Anche i discepoli, all’inizio degli Atti degli Apostoli, ancora non hanno compreso la novità del Regno che Cristo realizza, né il modo (cf At 1,6). Questo fraintendimento è esplicito in quanto ascoltato nel vangelo di Marco “Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide”. Una delle parole più fraintese è il Regno e il Re. “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Cristo entrava a Gerusalemme cavalcando un asinello: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9).

Ecco la portata forte e permanente sulla vita spirituale di ogni battezzato, intendere il Messia e la venuta del suo regno secondo il Padre, dunque nella figliolanza, o secondo le attese psichiche di rivincita secondo le categorie del mondo.



P. Marko Ivan Rupnik
Fonte:http://www.clerus.va

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