don Enzo Pacini, "Il giovane ricco che non si fida"

Il giovane ricco che non si fida
Domenica 14 ottobre - XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. «Vendi quello che hai e seguimi»

10/10/2018 di Enzo Pacini Cappellano del carcere di Prato
L'invettiva contro i ricchi dell’apostolo Giacomo che abbiamo ascoltato un paio di domeniche fa (Gc 5,3-6), trova una certa corrispondenza con il brano evangelico di oggi (Mc 10,17-30), anche se con toni meno accesi. La messa in guardia di Cristo nei confronti del ricco è però ugualmente radicale al punto di suscitare la perplessità dei discepoli e la domanda: «e allora chi si può salvare?». Questa domanda, fra l’altro, è un segnale, un richiamo a una lettura non superficiale di questo testo, una pulce nell’orecchio dell’ascoltatore. Infatti vi potrebbe essere una risposta spontanea, quasi automatica: se i ricchi non si possono salvare, si salveranno i poveri. E invece una lettura sociologica di questo tipo rimane limitata.

È vero, gli apostoli alla fine scopriranno di essere loro stessi destinatari di questo annuncio di salvezza perché hanno lasciato tutto e hanno seguito il Maestro, ma è quasi una sorpresa, una scoperta inaspettata, più che un titolo di merito, come se nonostante tutto si sentissero minacciati loro stessi dal rischio della perdita della vera vita. Forse perché, al di là della consistenza del proprio portafoglio, la ricchezza è comunque un mito, un polo d’attrazione presente nella vita di ognuno e, al contrario, la perdita, a qualunque cosa possa essere riferita, è un rischio da evitare con tutte le forze. L’obbedienza ai comandamenti del ricco si configura come una sorta di investimento, di titoli a lunga scadenza che produrranno interessi da riscuotere al momento opportuno, una liquidazione coincidente con la vita eterna. La proposta di Cristo è invece investire in tutt’altro, diremmo oggi cambiare settore, un settore ai nostri occhi più rischioso, un titolo tossico, con parole moderne, ma che Cristo stesso garantisce.

Ecco il punto dolente: la fiducia in Lui, l’affidamento al suo progetto, al suo annuncio, al punto che chi si affida veramente non si mette più a calcolare gli interessi, le oscillazioni della borsa ma si mette alla sequela di una persona. Gli apostoli scoprono di aver lasciato tutto al momento in cui Cristo tocca l’argomento, fino a quel momento forse neppure se ne erano accorti, forse il loro orizzonte era totalmente occupato da questa persona, dal cammino che si apriva giorno per giorno, dai momenti vissuti insieme e le esperienze quotidiane.

Come siamo lontani dal dare-avere del giovanotto tanto buono che Gesù un po’ rimbrotta: ma stai attento a mettere tutte queste etichette, guarda che Dio solo è buono, svegliati, datti una mossa, credi che la tua visuale così perbenista sia la realtà? Ma proprio per niente. Tanto è vero che chi mi segue troverà anche persecuzioni, oltre al centuplo, ma la realtà è questa, e la fede non è semplicemente una vernice per tinteggiarla di rosa. Il messaggio di Cristo, in quest’ottica, è alquanto destabilizzante. Il richiamo alla ricerca della sapienza che ci arriva dalla prima lettura (Sap 7,7-11) può esserci utile come orientamento di fondo: non si può vivere di istintualità, di sensazioni, di omologazione all’esistente. Ma non si tratta neppure di una sapienza aulica, aristocratica, chiusa nel proprio empireo. S. Paolo parlerà della sapienza della croce, che contemporaneamente è stoltezza, almeno agli occhi del mondo (cf.1Cor 1,18-25), ma che è la sola che può permettere una radicale apertura della nostra vita alla sua pienezza.

Fonte:www.toscanaoggi.it/

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